Prima è venuta la serie madre, che è andata in onda, con pochi alti e molti bassi, per sette stagioni. Due di troppo. La protagonista, in realtà, avrebbe voluto mollare alla terza, ma non ha mai trovato la forza di dirlo alla produzione.
Poi, dopo qualche anno, è venuta la serie spin-off, con la stessa attrice principale, che adesso è a metà della seconda stagione.
Il gradimento, però, è davvero molto basso, e il network sta seriamente pensando di non rinnovarla. Alcuni fan ne sono rattristati perché credono che sia la serie migliore del mondo, il fiore all'occhiello nella filmografia di chiunque, la crème de la crème, la crema di crema alla Edgar, ma lo dicevano anche di Game Of Thrones.
L'attrice principale, dal canto suo, sta tentando in tutti i modi di discostarsene; una roba che Robert Pattinson con Twilight può accompagnare solo.
Gli autori stanno quindi ragionando se fare un finale ibrido che funzioni sia da series sia da season finale, qualora ci sia un ripensamento. La protagonista dello show, tuttavia, non perde occasione di far sapere che se non ci ripensano è meglio. Lei, d’altronde, a parità di incapacità di recitare, si sente più in sintonia con Ruby Rose che con Ellen Pompeo.
E anche un eventuale revival è fuori discussione, sarebbe peggiore perfino di quello di Una Mamma Per Amica. Di un film, ovviamente, manco a parlarne.
Ma d'altronde gli autori stessi riconoscono che una serie del genere non sarebbe mai potuta andare avanti più di tanto: c'era materiale, al più, per una miniserie. E tra tutte le miniserie del mondo, avevano in mente Chernobyl. Tragedia. Distruzione. Sofferenza. Dosimetri che misurano 3.6 roentgen solo perché arrivano a 3.6 roentgen. Niente di great e tutto di terrible.
Al momento l'attrice principale prova a fare il punto della situazione, almeno con se stessa. Sa bene che la stagione dei pilot non è ancora partita, e non sa nemmeno se ci saranno serie di un genere diverso rispetto a quelle a cui è stata associata fino ad ora (e a lei quel genere fa davvero tanto schifo), e per questo non può far altro che tirare avanti. Malamente.
Intanto però sogna, a occhi aperti e anche chiusi, il momento in cui la sua pagina IMDB verrà aggiornata e finalmente ci sarà scritto l'anno in cui ha smesso definitivamente di interpretare quel ruolo.
Ruolo che, davvero, sarebbe dovuto andare a qualcun altro.
*Avviso ai naviganti: questo post è come quelle ricette che trovate sui blog di cucina in cui prima di arrivare a leggere il procedimento per la panna cotta dovete sorbirvi il racconto dell’infanzia a San Vito Chietino di chi ha scritto l’articolo. Pertanto, se non volete conoscere lo stato della mia sanità mentale dopo più di un anno di pandemia, perché giustamente pensate vabbèmachecazzomenepuòfregarechegiàhotantiproblemidimio e volete andare subito alla parte in cui blatero e straparlo di WandaVision, scorrete fino al primo titoletto in grassetto corsivo*
«Ciao, sono PieraPi e non vado al cinema da 479 giorni.»
«Ciao, PieraPi.»
Una volta contavo i giorni che mi separavano dalle cose belle future, e adesso posso solo tenere traccia di quelli trascorsi, che si ammucchiano come vecchie riviste su quel tavolino da caffè traballante che è la mia testa. Mi sento sempre più vicina allo sbroccamento totale, e sapessi almeno quando avverrà — una data, un’ora, un minuto, un istante, è quello, fran — potrei organizzare un conto alla rovescia in memoria dei bei vecchi tempi. E invece no, manco ‘sta soddisfazione mi viene data. Vivo in costante attesa di un tracollo che sento vicino ma che non arriva, un po’ come quando ti pizzica il naso ma non riesci a starnutire, e resti appesa con la faccia da deficiente.
In realtà dico così perché ho sempre pensato che il tracollo debba essere una specie di eruzione pliniana, un evento così distruttivo da divenire un chiaro spartiacque tra il prima e il dopo, ma a questo punto mi è venuto il dubbio che invece possa semplicemente essere un processo sedimentario, una consunzione lenta e ineluttabile (wink wink nudge nudge). Perché esplosa no, non sono esplosa.
Erosa però sì.
Mi sa che sono tracollata da mo’, e manco me ne sono accorta.
Quando va bene mi sento soltanto un guscio vuoto che si trascina nel mondo non per volontà ma per inerzia, non per scopo ma per abitudine, per cui nulla ha senso e tutto è futile, senza più nessun entusiasmo e ancor meno interessi, quello che forse i cinici greci chiamavano adiaforia, ma è più fregancazzismo.
Quando invece va male passo un sacco di tempo a cercare di non piangere; non sempre ci riesco. Guardo indietro e vedo solo anni buttati via a studiare cose che non mi interessano per fare un lavoro che non mi piace; guardo avanti e non riesco a vedere un futuro che vada oltre le nove di sera del giorno in cui mi sveglio. E se per caso capita che riesca a squarciare il velo di Maya-hii maya-huu maya-haa maya-ha ha che sta all’orizzonte, non vedo una me del futuro felice. Contenta ogni tanto, forse, ma felice mai.
È colpa della pandemia? Sì, no, non sa/non risponde. Certo è che mentirei se dicessi che per gran parte non mi sentissi miseramente, superbamente a pezzi anche prima. È una sbronza, la pandemia: non altera la personalità ma si limita a far emergere ciò che da sobri riusciamo a nascondere o almeno a controllare. Tra l’altro io addirittura svuoto i Mon Chéri forandoli con lo stecchino per buttare via il liquore, quindi in effetti che diavolo ne posso sapere.
Ma almeno prima, santoiddio, potevo andare al cinema.
Almeno prima, santoiddio, avevo qualcosa da attendere.
E sebbene ci siano stati alcuni film che ho aspettato con trepidazione — su tutti, per stare in tema Marvel, quelli della saga dell’infinito — in generale era proprio l’idea di andare al cinema che mi elettrizzava. Sedermi in poltrona, vedere le luci abbassarsi, guardare i trailer. Perfino le pubblicità sparate a tremila — ristorante pizzeria Orange, prima o dopo il cinema — per me erano una cosa bella. Andare al cinema era l’equivalente dell’infilare un caricabatterie in una presa di corrente, una botta di vita che mi rendeva tollerabile tutto il resto, e che mi sostentava fino all’esperienza di sala successiva. E lo stesso vale per le serate film a casa di un’amica che chiamerò Melania per tutelare la sua privacy, insieme a un’altra amica che chiamerò Silvia, in cui la prima passa la metà del tempo a scusarsi per il disordine e le tazzine di caffè dimenticate in bagno, e l’altra si gira a dormire e si sveglia solo per chiedere di abbassare il volume. Almeno quando ancora si poteva indulgere in cotali trasgressioni.
Adesso, che nella presa di corrente infilerei ben più volentieri un dito, privata dell’una e dell’altra esperienza, è da un anno che mi alzo la mattina e, come Homer Simpson, “cerco solo che il giorno non mi faccia troppo male, finché non mi imbacucco nel letto” e scivolo nella benvenuta incoscienza. Gli unici film, ormai, sono quelli mentali. E non sono avventure epiche, no: sono Ricomincio da capo, o 50 volte il primo bacio (che poi non si può manco baciare nessuno, c’è la pandemia), perché ogni giorno è contemporaneamente la ripetizione del precedente e di quello successivo. Il concetto stesso di tempo, se il tempo è la misura del cambiamento, è volata dalla finestra: non scorre in linea retta e nemmeno in cerchio, ma in un groviglio di Jeremy Bearimy. Ogni tanto è martedì.
La fine, per cortesia, si può vedere la fine?
È in questo contesto desolante e mesto che si è inserita WandaVision, la miniserie introduttiva della Fase 4 del Marvel Cinematic Universe che, per otto settimane, mi ha fatto compagnia il venerdì sera e nei giorni di mezzo, quando con gli altri fan ci si scambiava opinioni, teorie e meme in egual misura. Se le serie tivvì (quelle sui supereroi in special modo) sono da sempre il mio rimedio contro il logorio della vita moderna, a maggior ragione una serie Marvel adesso è stata un cataplasma per il mio animo sgualcito. Per un po’ ho avuto qualcosa da attendere, ed è stato bello.
E no, non mi sfugge l’ironia del cercare rifugio dalla realtà in una serie la cui protagonista a sua volta cerca rifugio dalla realtà nelle serie. È la vita che imita l’arte che imita la vita.
So you’re saying the universe created a sitcom starring two Avengers?
WandaVision, le cui vicende si svolgono pochi giorni dopo Avengers: Endgame, vede come protagonisti due personaggi che, sebbene decisamente importanti nell’economia dell’MCU, sono sempre ricaduti sotto l’etichetta “secondari”: Wanda Maximoff e Vision. Questa miniserie è stata dunque la benvenuta occasione per gettare luce su coloro che, inevitabilmente, si sono sempre mossi all’ombra di personaggi ingombranti come Captain America, Iron Man e Thor, e l’ha fatto costruendo una solida e approfondita caratterizzazione (per Wanda in special modo) che soltanto una narrazione a episodi poteva consentire.
Innanzitutto, c’è da dire che WandaVision è un prodotto innovativo, che utilizza la grammatica, il linguaggio e gli stilemi delle sitcom per raccontare il lutto e la sua elaborazione. E lo fa muovendosi contemporaneamente su due binari: da una parte percorrendo i vari decenni della tv americana, partendo dagli anni ’50 fino ai giorni nostri, adattando tecniche e registri stilistici sia all’epoca sia alle serie cult di riferimento, dall’altra le cinque fasi del lutto secondo il modello postulato dalla psichiatra Elisabeth Kübler-Ross nel 1969. Così, mentre vediamo Wanda e Vision passare dal bianco e nero a colori, dai 4:3 ai 16:9, dagli effetti speciali col filo trasparente alla CGI, parallelamente osserviamo Wanda venire a patti col suo dolore, dapprima negandolo (epp. 1-2) e poi accettandolo (ep. 9), ma non prima di aver sperimentato rabbia (epp. 3-4), patteggiamento (epp. 5-6) e depressione (epp. 7-8).
E in effetti è proprio Wanda il vero focus della serie, che avrebbe ben potuto chiamarsi “Wanda’s vision”, se non fosse stato appena appena spoiler. È lei che, sebbene inconsciamente, ha creato la realtà fittizia che ha inglobato dentro a un esagono di pura magia una piccola porzione di New Jersey, la cittadina di Westview, che Vision aveva scelto come luogo per “invecchiare insieme”. Wanda riscrive la realtà secondo il suo bisogno di lieto fine, che segue a vent’anni di traumi accumulati e mai affrontati: la morte dei genitori in un bombardamento e poi quella di Pietro dovuta a Ultron, l’incidente in Lagos in cui Wanda ha causato la morte di alcuni civili nel tentativo di salvarne altri, gli accordi di Sokovia e la conseguente etichetta di fuorilegge (se non proprio di terrorista), la prigionia nel Raft, dover uccidere Vision per salvare metà dell’Universo, ma solo per vedere Thanos portare indietro il tempo e ucciderlo lui stesso.
E poi lo “snap” del titano e il “blip” di Hulk, il ritorno cinque anni dopo e Vision smembrato dallo S.W.O.R.D. La “visione di Wanda” è dunque l’illusione di una famiglia, lei che ha perso ogni singolo membro della sua, e un luogo cui appartenere, lei che è una straniera in terra straniera. La sua illusione prende la forma delle sitcom, quella particolare categoria di serialità in cui tutto si risolve e nessuno è mai “realmente ferito” perché “non è quel tipo di show”, in cui lei ha sempre trovato conforto. Io, per dire, sono perfettamente consapevole del ruolo che ha giocato Modern Family nel tenermi sana di mente durante gli oscuri anni universitari.
Ecco quindi che WandaVision non è solo un tassello del Marvel Cinematic Universe che porta avanti una storia iniziata nel 2008 con Iron Man, ma è anche e soprattutto un brillante esperimento di meta-televisione, in cui i riferimenti alle serie tv del passato non sono mero citazionismo pop fine a se stesso ma diventano necessario meccanismo di narrazione in quanto, appunto, strumenti per l’elaborazione del lutto di Wanda.
Perfino gli intermezzi pubblicitari, elementi ulteriori che ci hanno venduto l’idea di stare assistendo alla trasmissione di un programma (endo)televisivo vero e proprio, hanno contribuito a narrare in via simbolica e subliminale il malessere di Wanda (va da sé che, come le sitcom, anche le pubblicità sono frutto dell’inconscio di lei stessa): lo spot del tostapane a marchio Stark, con l’unico tocco di colore in una trasmissione altrimenti in bianco e nero dato dalla luce rossa pulsante, richiama il lampeggiare della bomba inesplosa di Sokovia; quello dell’orologio a marchio Strücker è un riferimento agli esperimenti cui sono stati sottoposti i gemelli Maximoff; quello del sapone a marchio Hydra è piuttosto eloquente nel promettere una fuga dalla realtà, e rivolgendosi a chi voglia trovare la propria “dea innata” è altresì un sagace richiamo all’essenza (mitologica) di Wanda stessa; ugualmente eloquente lo spot della carta assorbente Lagos, “per quando combini un casino senza volerlo”. Quello dello yogurt Yo-Magic, in cui il bambino naufrago sull’isola deserta finisce col morire di fame per non essere stato in grado di aprire il vasetto, potrebbe invece essere un diretto riferimento a Vision, che è stato creato con la magia (“your magic”) ma potendo esistere solo all’interno dell’esagono quella stessa magia non è in grado di sostentarlo in toto; infine, quello del farmaco antidepressivo Nexus si riferisce, oltre alla condizione psicologica di Wanda, anche al fatto che nei fumetti lei sia un “essere Nexus”, ossia uno di quegli individui, uno per ogni mondo del multiverso, in grado di alterare la realtà.
Dick Van Dyke again? Always sitcom, sitcom, sitcom...
Dei nove episodi di WandaVision, ognuno con un titolo che richiama il mondo seriale, sei sono in stile sitcom. Molte di più, però, sono quelle omaggiate, nelle tecniche, nelle sigle, nelle scenografie: The Dick Van Dyke Show (Dick Van Dyke è stato persino consultato), Lucy ed io, Vita da strega, La famiglia Brady, The Mary Tyler Moore Show, Genitori in blue jeans, Gli amici di papà, Casa Keaton, Malcolm, Happy Endings, The Office, Modern Family (per quest’ultima rimediando l’aperto plauso di Julie Bowen, interprete di Claire Dunphy).
In realtà ve ne sono moltissime altre, perlomeno a giudicare dai mille articoli di approfondimento imperversati su internet, che più articoli erano tesi di laurea, ma le mie limitazioni anagrafiche e una coscienza seriale che si sviluppa solo a partire dalla metà degli anni ‘90 non mi consentono di essere più di tanto esaustiva. Una cosa però la so: vista la mia già menzionata affezione per Modern Family, vedere Elizabeth Olsen dar impeccabilmente vita alla versione MCU di Claire Dunphy mi ha portato più gioia della ricezione di un bonifico.
I’m so tired. It’s just like this wave washing over me, again, and again. It knocks me down, and when I try to stand up, it just comes for me again. It’s just going to drown me.
In ogni caso Wanda Maximoff nasce, e resta, un personaggio estremamente tragico, e non c’è nessuna sitcom che possa ovviare a questa verità. D’altronde, le sitcom stesse non erano che un mezzo per arrivare a un fine: vivere un’esistenza, per quanto soltanto fittizia, per una volta priva di dolore (e lo stesso passaggio da un decennio all’altro non è che un modo per illudersi di avere avuto, con Vision e i figli Billy e Tommy, tutto il tempo che hanno le altre famiglie).
La sofferenza di Wanda ha una portata tale da informare ogni sua decisione, conscia e inconscia. È certamente conscia la decisione di tenere Westview sotto il suo incantesimo, per quanto non immagini nemmeno che le persone coinvolte ne soffrano (anzi, crede sia il contrario), ed è certamente inconscia la creazione dell’esagono: l’unica consapevolezza riguarda il sentimento che ha condotto a quell’evento.
Per Wanda il tracollo è stato sì un’eruzione pliniana, scatenata dalla vista del lotto di terreno acquistato da Vision e che nei piani era destinato a diventare casa loro. Sopraffatta, Wanda cade in ginocchio e la magia che andrà a produrre sia l’ESA sia Vision prorompe non (soltanto) dalle mani, come è sempre stato, ma direttamente dal petto, in una sequenza tra le più intense e drammatiche, in pieno parallelismo con quella di Age of Ultron, in dieci anni di MCU.
I don’t know how I did it. I only remember feeling completely alone. Empty. Just endless nothingness.
Il fatto che la creazione dell’ESA e tutto ciò che ne è conseguito fosse involontaria, e che Wanda ne abbia soltanto una minima (ma via via crescente) consapevolezza (quando dice di non essere lei a controllare gli abitanti di Westview nella misura che insinuava Vision, di totale privazione del libero arbitrio, o ribadisce ad Agatha di non aver fatto nulla, non sta mentendo: sta soltanto rimuovendo e sopprimendo un trauma) contribuisce a delineare il personaggio in una maniera assolutamente originale. Non sarebbe stata la stessa cosa se invece vi fossero state premeditazione e volontà di ferire gli altri in cambio della sua felicità: in quel caso avremmo avuto a che fare con un’antagonista pura e semplice. Wanda, invece, che comunque milita nelle fila dei buoni, è qualcosa di più: è un’eroina tragica nel senso in cui lo intendeva Aristotele nella “Poetica”: “Sarà cioè buon personaggio da tragedia colui il quale, senza essersi particolarmente distinto per sua virtù o sentimento di giustizia, neanche sia tale da cadere in disavventura a cagione di sua malvagità o scelleraggine, bensì a cagione soltanto di qualche errore” [Laterza, edizione digitale 2019, trad. Manara Valgimigli].
Wanda, nonostante quello che possano pensare i cittadini di Westview, non è una villain: non ha agito (nella parte conscia delle sue azioni) per malvagità, ma per il “difetto fatale” che le è proprio, cioè l’incapacità di processare il suo lutto. E quando si rende conto che quegli stessi cittadini preferirebbero morire che vivere un solo altro istante con il dolore di lei nella testa, non esita a distruggere l’ESA, anche se questo significa dover rinunciare all’illusione in cui si era rifugiata.
Tra l’altro, è opinione dello Stagirita™ che la tragedia non debba rappresentare “uomini estremamente malvagi cadere dalla felicità nella infelicità, perché, se anche una composizione siffatta potrebbe soddisfare per un certo rispetto il gusto del pubblico, non potrebbe però suscitare nessun sentimento né di pietà né di terrore: si prova pietà per una persona la quale sia immeritamente colpita da sventura, si prova terrore [“terrore”, in tutte queste espressioni, significa più propriamente “trepidazione”] per una persona la quale [, egualmente colpita da sventura,] abbia parecchi punti di somiglianza con noi; e insomma, pietà per l’innocente, terrore per chi ci somiglia”.
Quand’anche in questa miniserie Wanda si muova spesso in un’area moralmente grigia, resta in ogni caso un personaggio verso il quale provare aristotelica empatia. Di più: le si vuole bene, dai.
You, Vision, are the piece of the Mind Stone that lives in me. You are a body of wires, and blood, and bone that I created. You are my sadness, and my hope. But mostly, you’re my love.
Dopotutto, bisognerebbe essere proprio dei cuori di pietra per non sentirsi nemmeno un po’ partecipi della più delicata e sventurata (e insolita — Vision non è nemmeno un essere umano) storia d’amore dell’MCU. Quello che nei film era stato appena accennato (data la natura corale degli stessi, in cui il focus era sui personaggi “maggiori”) qui è stato sviluppato e approfondito: dalla scena del paprikash di Civil War a vederli genitori di due gemelli tanto pucciosi quanto magici; dalla vita fuori dai radar a Edimburgo a una casetta con la staccionata bianca nella placida periferia americana. Certo, basta solo non pensare al fatto che quel Vision lì non esiste davvero.
I can’t feel you
Il vero Vision, infatti, giace(va) ormai smantellato come una macchina qualsiasi e non un essere senziente e dai sentimenti purissimi nonostante la sua natura artificiale. Nell’episodio 8 quel fil rouge di percepirsi, quella comprensione profonda l’una dell’altro che era la cifra del loro rapporto, si è definitivamente spezzato, unitamente ai nostri cuori. Cioè, il mio di sicuro.
But what is grief, if not love persevering?
Però cos’è il dolore, se non amore perseverante? Non deve stupire che sia stato Vision a pronunciare la frase-simbolo della serie. Nonostante sia un sintezoide, dalla sua introduzione nell’MCU si è rivelato il personaggio in grado di dimostrare la più pura forma di solidarietà, comprensione e indulgenza verso gli altri. Un essere artificiale, sì, ma da sempre definito dalla sua caratteristica migliore e principale: l’umanità. D’altronde, prima ancora di Cap, Vision è stato fin da subito degno di sollevare il Mjölnir di Thor.
L’ESA-Vision, poi, è ulteriormente peculiare. Rivive per unica volontà di Wanda, suprema demiurga, e nonostante sia “un ricordo diventato realtà” esercita, a differenza degli altri abitanti di WestView, il libero arbitrio, al punto da arrivare a mettere in discussione la “sceneggiatura” della moglie.
This is Chaos Magic, Wanda. And that makes you the Scarlet Witch
WandaVision è stata anche, e soprattutto, l’origin story di Wanda Maximoff come sceneggiatrice regista produttrice segretaria di edizione tecnica delle luci costumista Scarlet Witch. Sebbene Wanda abbia fatto il suo ingresso nel Marvel Cinematic Universe già nel 2014 (nella scena dopo i titoli di coda di Captain America: The Winter Soldier) e sia stata presente in Avengers: Age of Ultron, Captain America: Civil War, Avengers: Infinity War, Avengers: Endgame, per una mera questione di diritti del personaggio (allora appartenenti alla 20th Century Fox) non era stato possibile, fino ad oggi, appellarla col suo nom de guerre fumettistico, Scarlet Witch. Vederla trasformarsi e poi discendere dal cielo di Westview col nuovo costume e la consapevolezza di chi effettivamente è mi ha gasata tanto quanto, al cinema durante Endgame, mi ha gasata vederla apparire dal nulla e piazzarsi davanti a Thanos. Sì, il traguardo è stato tagliato dopo una maratona lunga sette anni, ma ne è valsa la pena.
A questo punto, tra l’altro, si può anche dichiarare concluso l’annoso dibattito su chi sia l’Avenger più potente: è Wanda, statece. Di certo è anche quello a cui serve più terapia.
You know... a family is forever. We could never truly leave each other, even if we tried. You know that, right?
In narrativa, e in generale nelle storie che fruiamo a prescindere dal medium, il “difetto fatale” è qualcosa che il personaggio, dopo averne preso consapevolezza, deve superare. Il superamento del fatal flaw di Wanda coincide con la quinta e ultima fase del modello Kübler-Ross, l’accettazione. Lo scontro finale con Agatha ha dimostrato quello che già dall’episodio 7, con l’ESA che “sfarfallava”, Wanda aveva iniziato a intuire: l’insostenibilità, nel lungo termine, della sua illusione; vi rinuncia per salvare i cittadini e per salvare se stessa. La Wanda che lascia Westview ha imparato la sua lezione: ha elaborato il lutto, non ne è più sopraffatta, e ora è in grado di conviverci. È tornata nel mondo al termine del proprio personale viaggio dell’eroe, e ora è pronta a iniziarne un altro: comprendere chi è, i suoi poteri, il suo ruolo. Nell’ultima scena dopo i titoli di coda la vediamo, infatti, nei panni di Scarlet Witch studiare il Darkhold sul piano astrale. Se non fosse che, inaspettate, le voci dei gemelli che chiedono il suo aiuto vengono a turbare questo nuovo equilibrio, la qual cosa potrebbe farla ripiombare nel baratro e cadere nella tana del bianconiglio che è il multiverso della pazzia di cui al prossimo film di Doctor Strange. Considerando poi che Agatha ha dichiarato che il destino di Scarlet Witch è quello di distruggere il mondo, be’, c’è poco da star tranquilli. In ogni caso, in questo pandemico e stinfio mondo, ora come ora ben poche cose sono suscettibili di portarmi gioia come il pensiero di una reunion tra Wanda e i figli, quindi io dico: daje. Purché Wanda non mi sbrocchi definitivamente nel processo.
She recast Pietro?
A proposito di reunion, quella farlocca tra Wanda con il fratello Pietro è stata la più grande trollata di sempre e l’ho amata alla follia. In molti ne sono rimasti delusi, perché credevano che significasse l’introduzione degli X-Men nell’MCU e di conseguenza del multiverso: d’altronde, perché chiamare a interpretare Pietro Maximoff non Aaron Taylor-Johnson ma Evan Peters, ossia il Pietro Maximoff dell’universo Fox? La risposta è una: perculata. O, se vogliamo, un meta riferimento in una serie che è già meta di suo. Considerando che, per quanto sia fan di roba supereroistica, gli X-Men proprio non riesco a farmeli piacere, per quanto mi riguarda non poteva andar meglio di così.
It’s been agatha all along
Se nella realtà il falso Pietro è opera degli autori, nella narrazione è invece opera di Agatha Harkness, una strega già a spasso ai tempi di Salem (nei fumetti era addirittura presente quando è scomparsa Atlantide). Strega estremamente potente, nel canone fumettistico è stata sia la mentore di Wanda che la tata del figlio di Reed Richards e Sue Storm dei Fantastici 4. WandaVision strizza l’occhio ad entrambe le circostanze (quando Wanda la ringrazia ironicamente per la “lezione” sulle rune e quando Agatha, ancora Agnes, si propone come babysitter per Billy e Tommy) ma reinterpreta il personaggio in altro modo. In particolare, qui Agatha è una sorta di antagonista ma non l’antagonista, ed è arrivata a Westview con l’obiettivo di comprendere l’anomalia magica in corso. Funge altresì da catalizzatore per la nascita di Scarlet Witch e sblocca anche, sebbene indirettamente, il trauma di Wanda facendole rivivere il passato, l’ultimo tassello per la definitiva accettazione.
Ora, sebbene già si fosse intuito che la bislacca vicina di casa Agnes, colei che fondamentalmente ha ricoperto fino all’episodio 7 il ruolo di spalla comica, fosse la famigerata Agatha Harkness, la rivelazione della sua vera identità ha saputo in ogni caso stupire, il che è anche la cifra della cura con cui è stata realizzata la serie: l’originalità meta narrativa con cui è stato (re)introdotto il personaggio nell’episodio 8 è tra le cose migliori di WandaVision.
E la canzoncina di riepilogo che l’accompagnava è diventata una hit e un meme in tempo zero, mi aspetto almeno almeno un riconoscimento ai prossimi Grammy.
Bravo!
Se dopo un post lunghissimo di mila e mila parole (cosa che in genere riservo solo a Taylor Swift) ancora non si fosse capito, ho amato questa miniserie in ogni aspetto. Saltare da un decennio all’altro, ognuno con le sue peculiarità in fatto di abiti, acconciature, scenografie, stilemi e tecniche è stata una benvenuta novità in un mondo – quello delle serie supereroistiche — abbastanza standardizzato. Da questo punto di vista WandaVision può certo stare in compagnia di una serie della concorrenza, DC’s Legends of Tomorrow, che ha fatto della follia senza freni e del rompere gli schemi il suo tratto distintivo, e che per ciò è una delle mie preferite da anni a questa parte.
Ora, al di là dell’evidente ottima realizzazione tecnica, cioè che per me è davvero il fiore all’occhiello della serie è la recitazione. Il duo Olsen-Bettany, già ben rodato, qui ha ancor più ribadito la propria intesa, e Kathryn Hahn nei panni di Agnes/Agatha, già piacevolmente oltre le righe in Parks & Rec, è stata una vera sorpresa.
Comunque, la vera punta di diamante è la protagonista in persona, Elizabeth Olsen. Che fosse decisamente brava non è certo una novità (e lo sa bene chi ha familiarità con la sua filmografia, fin dai suoi esordi con La fuga di Martha, passando per quel capolavoro totale che è I segreti di Wind River, e arrivando alla serie Sorry For Your Loss, dove più che brava è straordinaria), ma qui se possibile si è superata. Ha condotto Wanda attraverso le epoche di volta in volta modellando l’interpretazione al decennio di riferimento (ed è tanto più evidente se si confronta il modo di porsi della Wanda anni ’50 con quella contemporanea), ma sempre mantenendone intatta la coerenza di fondo. Di quando in quando ha lasciato tornare in superficie l’accento sokoviano, ha coniugato comicità e dramma (il primo aspetto è una novità tanto per Wanda quanto per Elizabeth stessa, la cui carriera è sempre stata orientata sul secondo), ed è stato incredibile vedere con quanta velocità modificasse registro di recitazione quando la serie stessa cambiava di passo in quelle scene stranianti e stridenti rispetto all’illusione perfettamente confezionata che Wanda provava a vendersi e a venderci.
Pertanto, se nella stagione di premi di là da venire Elizabeth Olsen non si porta a casa t u t t o, tra Emmy e Golden Globe a carriolate proprio, giuro che creo io stessa una realtà alternativa in cui vince qualsiasi cosa, dal Nobel al Telegatto.
Please stand by
WandaVision è stata solo la prima portata di quello che è praticamente un pranzo di matrimonio, tra tutte le serie e i film della Fase 4 che vedranno la luce tra quest’anno e il 2023, e sarà bello bello bello. Sì, sì, per carità, c’è la pandemia e la vita è miseria, ma siccome è miseria a prescindere, non fa certo male tenersi un po’ di roba Marvel a portata di mano, tipo EpiPen.
Il titolo di questo post è un richiamo alla poesia Il corvo di Edgar Allan Poe. I più acculturati di voi potrebbero pensare che una simile scelta stia a sottolineare un qualche parallelismo tra il poema stesso, che parla di un amore ormai perduto, e l’ultimo disco a sorpresa di Taylor Swift, evermore.
I più acculturati di voi sbaglierebbero.
Perché come lo scrittore di Boston se ne stava svaccato in poltrona a meditare su un qualche tomo, quando la sua tranquillità fu turbata all’improvviso dalla visita di un corvo che ripete all’infinito la parola “Nevermore”, così io me ne stavo svaccata sul divano a meditare sugli episodi natalizi dei Simpson, quando la mia tranquillità fu turbata dalla notifica di un tweet di Taylor che annunciava “evermore”.
Avete presente casa Banks, in viale dei ciliegi 17, prima che l’ammiraglio Boom cannoneggi l’ora esatta, in cui tutti si mettono ai posti di manovra? Ecco, in quel momento l’internet era uguale: tutti che correvano ai posti di manovra cercando di parare il colpo che un nuovo disco a sorpresa avrebbe inflitto sulle nostre menti imbelli, che ancora stavano tentando di metabolizzare la maestosità di folklore.
Io quasi me l’immagino, Taylor, seduta su una sedia girevole con un gatto sulle gambe, mentre osserva il dipanarsi del caos che ha appena creato, come una Bond villain qualsiasi. Perché secondo me c’è malizia. C’è premeditazione. Non è tanto il voler donare arte al mondo, quella è solo la scusa con cui impacchettare le sue malefatte, per dar loro una parvenza di rispettabilità: lei, il mondo, vuole solo vederlo comburere.
(beccate questa, Taylor, non sei l’unica gattara a saper usare i paroloni)
D'altronde, è anche vero che ci sono modi peggiori di terminare un anno (specie uno catastrofico come il 2020) e quindi, per la seconda volta nel giro di pochi mesi, vi presento
il Tomone 6.0.™.
RIGHT DOWN THE RABBIT HOLE
willow
[Taylor Swift, Aaron Dessner]
La canzone che apre l’album è caratterizzata da una particolare levità, con una melodia che è subito orecchiabile e molto difficile scrollarsi di dosso.
Tematicamente, questa canzone potrebbe essere un ulteriore tassello nella dinamica tra Betty, James, e il flirt estivo di quest’ultimo, la misteriosa “august girl”. In particolare, willow sembrerebbe narrare proprio l’inizio della tresca, perché vi sono riferimenti espliciti alla clandestinità (“Head on the pillow, I could feel you sneaking in”;“Wait for the signal and I'll meet you after dark”). Anche quel “wreck my plans” mi fa propendere per questa interpretazione, perché dubito che nei piani di vita della “august girl” vi fosse quello di diventare l’amante di qualcuno, con tutte le conseguenze — negative — del caso.
Nel descrivere la canzone, Taylor ha detto che le dà l’idea di un incantesimo lanciato per far innamorare qualcuno, e in effetti in tutto il testo si respira quest’atmosfera di incantamento, quasi di perdita del libero arbitrio (“The more that you say, the less I know / wherever you stray, I follow”, “Life was a willow and it bent right to your wind”), un po’ come nella fiaba del pifferaio magico.
Il video, invece, è la diretta prosecuzione di quello di cardigan, e riprende il concetto del filo invisibile che lega tra loro due persone.
#AlcoholicCount: 1 (wine)
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “Show me the places where the others gave you scars”
champagne problems
[Taylor Swift, William Bowery - aka Joe Alwyn]
“Champagne problems” è un modo di dire per indicare un problema che, se paragonato a situazioni ben più gravi (la povertà, Matteo Salvini, la malattia, Matteo Salvini, la guerra, Matteo Salvini, la pandemia, Matteo Salvini), appare in fin dei conti risibile. Insomma, di che ti lamenti, che c’è chi sta peggio. Ciò non toglie che sia comunque un problema che ci fa star male (non sarebbe tale, altrimenti) e, pur riconoscendo una certa posizione di privilegio di chi si duole di un problema meno grave rispetto a un altro, non è nemmeno corretto minimizzarlo (se non altro per l’effetto valanga).
Così, qualcuno potrebbe considerare uno “champagne problem” il rifiuto di una proposta di matrimonio; si può prenderla con filosofia e decidere che non era altro che il modo che aveva l’universo per dirci che la vera felicità era già prevista allo svincolo successivo, siamo noi che abbiamo girato troppo presto (“But you'll find the real thing instead / She'll patch up your tapestry that I shred”). Nondimeno, è del tutto lecito soffrirne.
Taylor trasla la metafora del problema-non-problema-un-po’-problema al caso concreto attraverso lo champagne che, dall’espressione idiomatica, giunge a essere proprio quel Dom Perignon acquistato per celebrare — perlomeno quella era l’idea — una lieta occasione.
In questa canzone si respira tutta l’incredulità della persona rifiutata: i versi “Because I dropped your hand while dancing / left you out there standing” e “You had a speech, you're speechless / love slipped beyond your reaches / and I couldn't give a reason” creano l’immagine definita di qualcuno che all’improvviso viene mollato lì, così, senza una spiegazione, incapace di rendersi conto di cosa sia appena successo. E nel momento in cui lo si realizza, be’, si va in pezzi (“Your heart was glass, I dropped it”). Chissà se, tra gli invitati alla festa, ci fosse anche un Bart Simpson che poi, pronto col telecomando, facendo avanzare i fotogrammi, possa “persino individuare il secondo preciso in cui il suo cuore si spezza a metà”.
#AlcoholicCount: 9 (champagne, bottle, Dom Perignon)
#CurseWordsCount: 1 (fucked)
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “You had a speech, you're speechless / love slipped beyond your reaches / and I couldn't give a reason”
gold rush
[Taylor Swift, Jack Antonoff]
Per quanto questa canzone mi sia piaciuta fin da subito, se devo essere sincera il titolo aveva creato in me aspettative di un poema epico sulla vera corsa all’oro. Avete presente, no? Il Klondike, lo Yukon, Jack London, le slitte per Dawson, cose così. Insomma, mi aspettavo una storia su un evento storico, e non una metafora, ma fa niente: quando sarò in vena di cercar pepite mi rivolgerò al tastierista dei Nightwish Tuomas Holopainen e al suo splendido Music Inspired by the Life and Times of Scrooge, in cui ha trasposto in musica la saga di Zio Paperone del fumettista Don Rosa.
gold rush è, innanzitutto, una canzone sulla gelosia che si prova nel vedere il centro del nostro interesse essere il centro dell’interesse di altri (“I don't like that anyone would die to feel your touch / Everybody wants you / everybody wonders what it would be like to love you”), proprio come l’oro lo era per tutti i minatori. Ma è anche una canzone sull’alzare bandiera bianca: dopo aver messo ripetutamente in chiaro, forse in modo quasi ossessivo, di non amare l’idea della competizione (tutti quei “don’t like”), alla fine si decide di rinunciare del tutto, e quella pepita che per un po’ si era riusciti ad afferrare (“I call you out on your contrarian shit / And the coastal town / we wandered round had never / seen a love as pure as it”) viene lasciata andare (“I won't call you out on your contrarian shit / And the coastal town / we never found will never / see a love as pure as it”).
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 2 (shit)
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “Eyes like sinking ships / on waters so inviting / I almost jump in”
‘tis the damn season
[Taylor Swift, Aaron Dessner]
È probabile che ’tis the damn season e dorothea siano due facce della stessa medaglia. Se fosse, il punto di vista qui è di Dorothea, che ritorna per le vacanze di Natale nella cittadina in cui ha vissuto prima di diventare famosa.
È interessante notare quanto i toni dei due brani siano differenti: qui si indulge nella malinconia, e il passato viene ricordato con rimpianto (“And the road not taken looks real good now”; “And the heart I know I'm breaking is my own / to leave the warmest bed I've ever known”); in dorothea l’altra persona quasi dà per scontato che le cose dovessero andare come sono andate. Il domandarsi “Chissà se ogni tanto si ferma a pensarmi?”, seguito da quel “Sai, puoi sempre mollare tutto e tornare” non assurge mai al rango di una vera e propria presa di coscienza sull’importanza che si è avuta nei confronti di Dorothea; è solo un sogno a occhi aperti alimentato, più che da un reale desiderio, da una mera curiosità, che prende vita nel momento in cui si vede Dorothea sullo schermo, o sulle pagine di un giornale, per poi morire quando lo schermo sfuma al nero, o la pagina viene girata.
’tis the damn season è ammantata da un’atmosfera di rassegnata mestizia, veicolata da espressioni come “cold”, “gogs up windshield glass”, “bad perfume”. Paradossalmente, quell’immagine delle ruote infangate del furgone, che in condizioni normali sarebbe altrettanto “negativa”, qui invece è l’àncora ai bei ricordi di un tempo che fu, ma ormai perduto.
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 5 (“damn”, compresa quella nel titolo)
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “And the road not taken looks real good now”
tolerate it
[Taylor Swift, Aaron Dessner]
Cold As You, White Horse, Dear John, All Too Well, All You Had To Do Was Stay, Delicate, The Archer, my tears ricochet e, infine, tolerate it: la traccia n. 5 degli album di Taylor è sempre una traccia peculiare; con l’eccezione di Delicate, vi si veicola sempre una certa dose di afflizione (perfino in All You Had To Do Was Stay, nonostante il suo beat possa far immaginare il contrario).
In questa canzone si racconta dell’atteggiamento scostante di una persona nei confronti di un’altra. È un rapporto di coppia in cui tutti gli sforzi di una per far funzionare la relazione (“I sit and watch you, I notice everything you do or don't do”; “Use my best colors for your portrait”; “I greet you with a battle hero's welcome”;) si scontrano contro la protervia dell’altro, un’arroganza che deriva evidentemente dal credersi migliore (si percepisce infatti un sentimento di inferiorità della voce narrante —“You're so much older and wiser and I / I wait by the door like I'm just a kid” — al punto che arriva a domandarsi se non sia invece lei, da persona meno “saggia”, ad aver frainteso tutto — “If it's all in my head tell me now / tell me I've got it wrong somehow”), e finanche contro una sorta di insofferenza (“Always taking up too much space or time”). Col risultato che tutto l’amore, anziché venir celebrato, viene soltanto tollerato: non è nulla di più di una scocciatura.
Sebbene l’ispirazione dichiarata di questa canzone derivi dal romanzo “Rebecca, la prima moglie” di Daphne du Maurier (diventato anche un film di Alfred Hitchcock), non è difficile trovarvi temi e concetti da Taylor già affrontati in altri brani. Per esempio, a me sono venute in mente Dear John (“Don't you think I was too young / to be messed with”, “Well maybe it’s me / and my blind optimism to blame”; “Never impressed by me acing your tests”), Tell Me Why (“Why… do you have to make me feel small”), Cold As Yoy (“You put up walls and paint them all a shade of gray / and I stood there loving you and wished them all away”; “You never did give a damn thing honey but I cried, cried for you / And I know you wouldn't have told nobody if I died, died for you”), perfino We Are Never Ever Getting Back Together (“With some indie record that's much cooler than mine”).
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 2 (shit)
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “I made you my temple, my mural, my sky / Now I'm begging for footnotes in the story of your life”
no body, no crime [feat. HAIM]
[Taylor Swift]
Lo scettro per la canzone più brillante di evermore ce l’ha senza ombra di dubbio no body, no crime. Finalmente, l’ossessione di Taylor per la serie poliziesca Law & Order paga, e noi ne guadagniamo la divertente narrazione (mi auguro non autobiografica) di un omicidio. Quando l’ho fatto presente a mio fratello, mi ha risposto: “Capirai, nulla che i Carach Angren non abbiano già cantato”. Oh be’, in ogni caso non è mai troppo tardi per darsi alla cronaca nera, dico io.
Questo brano è il racconto lineare, ma sapientemente articolato, dell’uccisione di un uxoricida fedifrago, e già le sirene della polizia nell’intro (lasciatemi credere che l’ispirazione derivi da Hanno ucciso l’uomo ragno) contribuiscono a delineare una precisa atmosfera di gusto giallo.
La canzone è una vera e propria escalation: si comincia con una donna, Este, che fiuta il tradimento da parte del marito (“Her husband's acting different and it smells like infidelity”; “She says, that ain't my merlot on his mouth/ That ain't my jewelry on our joint account”), si prosegue con la misteriosa scomparsa della stessa Este (“Este wasn't there / Tuesday night at Olive Garden at her job / or anywhere” / “He reports his missing wife”) e con delle circostanze piuttosto sospette, che fanno ritenere un tentativo di depistare l’analisi forense sulla scena del crimine (“And I noticed when I passed his house his truck has got some brand new tires”). Che poi l’amante del marito si trasferisca a casa, be’, a questo punto è proprio il minimo che ci si possa aspettare.
La piega che prende la canzone a partire dalla terza strofa è tutto fuorché inaspettata, perché Taylor ci ha indirizzati lì con un crescendo ben costruito (e sottolineato da quei “But I ain't letting up until the day I die” nei due precedenti ritornelli). E qui scopriamo che il marito assassino è sulla buona strada per venire assassinato a sua volta: c’è la barca con cui far sparire il corpo (Dexter Morgan dice “ciao”), c’è la pulizia della scena del crimine, c’è l’alibi falso, c’è la macchinazione verso l’amante che avrebbe anche il movente (che propizio tempismo, quello di aver stipulato un’assicurazione sulla vita del morto).
La canzone termina, a chiusura del cerchio, con una variazione del ritornello: al posto di “lui” (il marito) quale sospettato dell’omicidio di Este ora c’è “lei” (l’amante) quale sospettata dell’omicidio di lui; infine, di nuovo “lui” ma stavolta al posto del secondo “io” nel verso relativo al non lasciar perdere. In questa frase in particolare, ripetuta e lasciata in sospeso su “he”, viene omesso fino all’ultimo il riferimento alla morte (a differenza di quando è riferita alla voce narrante), ma ormai era evidente, visto anche il passaggio dal tempo presente – “I ain’t” — al tempo passato — “I wasn’t”, quale sarebbe stata l’ultima variazione. E anche se era evidente, e sapevo dove Taylor sarebbe andata a parare, quando ho sentito quel “died” non ho potuto fare a meno di esultare. Tiè.
#AlcoholicCount: 2 (wine, merlot)
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 2 (Este, il marito di Este)
#FavLyrics: “Este's been losing sleep / Her husband's acting different and it smells like infidelity”
happiness
[Taylor Swift, Aaron Dessner]
Ascoltando happiness si entra per forza in un universo parallelo dove le leggi che governano il mondo naturale non valgono, perché mi rifiuto di credere che questi siano cinque minuti e quindici secondi di canzone. Ho capito la teoria della relatività e tutto il cucuzzaro, ma qui si rischia di minare i principi fisici alla base del tempo istesso.
La canzone si apre con un’immagine allegorica, il trovarsi “sopra gli alberi”, che permette di stabilire lo stato d’animo della voce narrante che riflette su una relazione terminata: ci si trova non letteralmente al di sopra degli alberi ma in un luogo mentale di sufficiente (seppur non completo) distacco per cui si è in grado di fare una valutazione obiettiva di ciò che è stato (“Honey, when I'm above the trees / I see this for what it is”). Nonostante l’epilogo infelice, infatti, c’è l’onestà intellettuale di riconoscere gli aspetti positivi (“In our history, across our great divide / there is a glorious sunrise”; “But there was happiness because of you”; “[…] seven years in Heaven”).
Non si è ancora, tuttavia, arrivati a quella maturità emozionale per cui si è in grado di lasciarsi tutto alle spalle: “But now my eyes leak acid rain on the pillow where you used to lay your head”; “I hope she'll be your beautiful fool / who takes my spot next to you / No, I didn't mean that / sorry, I can't see facts through all of my fury”. Ma d’altronde lo si ammette: “You haven't met the new me yet”.
L’assunto sviluppato nei ritornelli, tuttavia, ci fa capire che prima o poi si arriverà al punto in cui ci sarà (di nuovo) la felicità. Basta solo darle tempo.
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 1 (shit)
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “In our history, across our great divide / there is a glorious sunrise”
dorothea
[Taylor Swift, Aaron Dessner]
dorothea è la storia di una ragazza che ce l’ha fatta. Di una ragazza che ha inseguito i suoi sogni, che ha lasciato i confini limitanti di una cittadina di provincia e ha fatto fortuna. Qui è un suo vecchio amore giovanile che la ricorda. Probabilmente è diventata un’attrice famosa (“A tiny screen's the only place I see you now”, “Selling dreams / selling make up and magazines”), e si è circondata di amici altrettanto famosi (“You got shiny friends since you left town”). Ma quello che, dall’esterno, è visto come un sogno scintillante, potrebbe in realtà avere i suoi coni d’ombra. Lo sguardo di Dorothea brillava di più quando era a Tupelo, in Mississippi (“The stars in your eyes / shined brighter in Tupelo”), rispetto a dovunque si trovi ora (presumo Los Angeles, menzionata in ’tis the damn season), e se volesse potrebbe sempre mollare tutto e ritornare alle origini (“But it's never too late / to come back to my side”). Non che l’amore giovanile pretenda alcunché da Dorothea, né un effettivo ritorno né di essere pensato, ma è solo bello sognare di fare ancora parte della vita di qualcuno, quella vita che sembra così bella e perfetta, anche solo come vago ricordo.
Dorothea sembrerebbe l’altra metà di ’tis the damn season, però a punti di vista invertiti.
A me ha fatto venire in mente anche un’altra canzone, Queen of Hollywood dei Corrs. È la stessa storia: una ragazza parte da casa per inseguire un sogno, e lo raggiunge. Solo che anche in questo caso il sogno ha i suoi risvolti oscuri (qui, forse, ben più oscuri che in dorothea): “Now her mother collects cut-outs / and the pictures make her smile / but if she saw behind the curtains / it could only make her cry / She's got hand prints on her body / sad moonbeams in her eyes / not so innocent a child”.
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “And if you're ever tired of being known / for who you know / you know, you'll always know me”
coney island [feat. The National]
[Taylor Swift, Aaron Dessner, Bryce Dessner, William Bowery - aka Joe Alwin]
Questo brano è un po’ il risarcimento morale per la parte di evermore (canzone) che non mi piace: la voce bassa e vibrante di Matt Berninger qua compensa quella alta di Justin Vernon di là.
Strutturalmente, coney island richiama exile, con due voci diverse che esprimono due punti di vista; entrambi hanno domande ma nessuno ha le risposte. L’intera canzone è pervasa da una malinconia nostalgica, in cui i ricordi riaffiorano prepotenti: da una panchina di Coney Island si tornano a rivedere, come fossero un film, scene di una vita passata, e si finisce col chiedersi cosa sia andato storto e quali potessero essere, di ognuno, le mancanze che hanno condotto a quell’epilogo.
Tra l’altro, è interessante notare come una delle cose per cui qui si domanda scusa è il non aver messo l’altra persona al centro delle proprie attenzioni (“Sorry for not making you my centerfold”, dove centerfold è il paginone centrale delle riviste), ed esattamente di questo ci si lamentava — a parti inverse — in tolerate it: in una stessa metafora editoriale, là si doveva pregare di essere considerati almeno una nota a piè di pagina (“Now I'm begging for footnotes in the story of your life”).
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “Will you forgive my soul / when you're too wise to trust me and too old to care?”
ivy
[Taylor Swift, Jack Antonof, Aaron Dessner]
L’edera (ivy) è una comune pianta infestante, cioè una pianta che invade i luoghi in cui cresce, e danneggia le piante già lì esistenti. Non penso che Taylor potesse trovare una metafora migliore per raccontare una storia di infedeltà.
La narratrice è già promessa a qualcun altro (“Taking mine, but it's been promised to another”) il quale poi diventerà il marito (“And drink my husband's wine”), eppure non può fare a meno di cadere in tentazione: si è inevitabilmente innamorata di un persona diversa. È qualcosa che va al di là del suo controllo (“So yeah, it's a fire / it's a goddamn blaze in the dark / and you started it”) e per quanto provi all’inizio a osteggiarlo (“Stop you putting roots in my dreamland”) non ci riesce. L’edera ormai non solo ha attecchito, ma ha invaso tutto (“My house of stone, your ivy grows / and now I'm covered in you”). E non si può fare altro che arrendersi a questo, pur con la consapevolezza che non si potrà mai vivere in pace, ma sempre guardandosi indietro per paura (“What would he do if he found us out?”; “Spring breaks loose, but so does fear / he's gonna burn this house to the ground”), e nascondendosi, vivendo di momenti rubati (“I’d live and die for moments that we stole”), facendo tesoro di un tempo che è preso soltanto in prestito (“On begged and borrowed time”), certi che si verrà scoperti prima o poi.
Nella canzone non ci sono riferimenti moderni di alcun tipo, il che mi fa pensare che questa sia la canzone con protagonista la “pioneer woman” di cui Taylor ha parlato nell’intervista con Paul McCartney (link), presa in un amore proibito. Si capisce allora meglio, se dunque la collocazione temporale della storia è l’epoca dei pionieri americani (il vecchio West, per intenderci), il perché quella donna abbia dovuto sottostare alla forma (il fatto di essere stata promessa già a qualcuno, e infine sposarlo) anziché essere libera di seguire il proprio cuore (che però, in ogni caso, non sarà mai del marito: “He wants what's only yours”).
#AlcoholicCount: 1 (wine)
#CurseWordsCount: 5 (goddamn)
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “Stop you putting roots in my dreamland”
cowboy like me
[Taylor Swift, Aaron Dessner]
Come gold rush, anche il titolo di questa canzone mi aveva fatto partire per la tangente: già mi vedevo insieme a Taylor tra le polverose pianure dell’Oklahoma, con i cavalli lanciati al galoppo, le Colt, gli sceriffi e i banditi, immagini e concetti che mi sono cari come a Cicerone era cara l’ipotassi. E se almeno gold rush mi piace un botto, quindi le perdono il fatto di avermi infinocchiata, questa canzone invece la trovo ben poco memorabile, se non proprio sciapa, e perciò un po’ me la sono legata al dito.
Si tratta di un brano abbastanza monotono, in cui nemmeno il bridge riesce a risultare meno anonimo delle strofe. Il che è un peccato, perché le premesse c’erano tutte, se solo musicalmente si fosse osato un po’ di più. La storia qui raccontata, in effetti, potrebbe essere un ottimo spunto per un dramedy di ricconi, coi campi da tennis e le macchine di lusso, così egoriferiti da non accorgersi nemmeno di farsi turlupinare da due arrivisti sociali che puntano solo ai soldi (“Telling all the rich folks anything they wanna hear”; “Only if they pay for it”; “Hustling for the good life”; “And the old men that I've swindled / really did believe I was the one”), ma poi si innamorano l’uno dell’altra. Da truffatori diventano truffati essi stessi (“Forever is the sweetest con”), o forse soltanto una dei due (“We could be the way forward / and I know I'll pay for it”), che potrebbe esserci rimasta scottata e allora torna al punto di partenza (“I’m never gonna love again”, che si ripete sia all’inizio della canzone che alla fine).
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 1 (fuck)
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “You're a bandit like me / eyes full of stars / hustling for the good life”
long story short
[Taylor Swift, Aaron Dessner]
Ipotizziamo che, facendo una meritata escursione post-pandemia sui Monti Sibillini, io caschi da un precipizio perché non sono riuscita a mettere un piede sulla sporgenza a forma di zoccolo di gnu e l’altro sulla rientranza a forma di vertebra di moffetta, e di conseguenza finisca in coma. Ecco, nel (malaugurato) caso in cui vogliate svegliarmi (no, davvero, non disturbatevi), sparare a palla questa canzone potrebbe essere il modo migliore per farlo (ma comunque non c’è bisogno).
Per arrivare a long story short siamo dovuti passare per reputation. In This Is Why We Can't Have Nice Things, le cose belle andavano messe via, al riparo, per evitare che altri le rompessero, e i cancelli venivano chiusi, e ci si rifugiava all’interno; in Call It What You Want le finestre erano state sbarrate non tanto per resistere alla tempesta — arrivata così all’improvviso da non aver tempo di prepararsi — ma per mettere una toppa alla distruzione che la tempesta aveva causato (“Windows boarded up after the storm”). Tutte immagini, queste, che rimandano al nascondersi (“Nobody's heard from me for months”), a un atteggiamento di mera difesa, e di conseguenza passivo: non si poteva certo contrattaccare, tanto si era male in arnese (“I brought a knife to a gun fight”).
Il castello che crolla e la caduta dal piedistallo sono la stessa cosa, se non fosse che in long story short, alla fine, per quanto si sia stati spinti giù dal precipizio, non si finisce spiaccicati: “Climbed right back up the cliff / long story short, I survived”. Si abbandona l’atteggiamento difensivo di prima, e si diventa artefici della nostra stessa salvezza (“But if someone comes at us / this time I'm ready”). Non solo, ma si è anche menato qualche fendente, nonostante gli agguati subiti: “I was in the alley surrounded on all sides / the knife cuts both ways”.
E tutto quel che c’è stato prima può essere liquidato con un laconico “It was a bad time”. Adesso si guarda al futuro.
(Io, comunque, col cacchio che intendo arrampicarmi di nuovo su: mi faccio mangiare dai lupi e ciaone)
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “And I fell from the pedestal / right down the rabbit hole / long story short, it was a bad time”
marjorie
[Taylor Swift, Aaron Dessner]
Eravamo usciti per fare un giro per le colline marchigiane tra i castelli di Jesi, forse verso l’Acquasanta. Mi ricordo un rettilineo asfaltato e il sole al tramonto che bagnava d’oro tutto intorno. Io e mio fratello ci divertivamo a cantare Dove il mondo non c’è più di Francesco Renga, che andava forte in radio in quel periodo. Questo mi fa pensare che fosse il 2002, e io avevo tredici anni e mio fratello undici. Mi sa che all’epoca nonno aveva già venduto la Ritmo e l’aveva sostituita con la Uno, e nonna si godeva i nipoti che non avevano una preoccupazione al mondo. Poi succede che a un certo punto cresci, hai i tuoi interessi, i tuoi giri, no, dai, non mi va di andare a cena dai nonni, devo studiare, vabbé, andiamo ma poi torniamo presto, guarda, no, oggi non vengo proprio che ho da fare. E poi a un certo punto se ne va uno, e tre anni dopo se ne va anche l’altra, e allora pensi che alcune cose avresti dovuto gestirle diversamente, perché lo sapevi che poi l’avresti rimpianto, potevi anche alzare gli occhi ogni tanto, sempre puntati per terra, evitare di essere sempre così insofferente, perché diavolo dovevi essere sempre così insofferente, e ripensi all’ultima volta che sei stata a cena lì e non sapevi sarebbe stata l’ultima, e richiami alla mente la casa, e ne visiti le stanze che hai archiviato nella memoria, perché non ci hai più rimesso piede dal giorno dell’ultimo funerale.
Ascoltando marjorie mi si è aperto un vaso di Pandora di ricordi, e ho pianto così tanto da essermi disidratata da sola. Spero che quest’album venderà bene, perché con almeno metà dei ricavi Taylor dovrà pagarmi i danni morali.
Marjorie Finlay era la nonna materna di Taylor, cui quest’ultima aveva già tributato omaggio nel video di Wildest dreams, attraverso il nome e le fattezze del personaggio da lei interpretato. Questa canzone è tanto intima quanto universale, e l’affetto che Taylor prova(va) per la nonna travolge l’ascoltatore come i carri armati britannici hanno travolto i soldati tedeschi nella battaglia della Somme. Tra le cose più belle, quei versi che hanno tutto il sapore di consigli di vita tramandati da nonna a nipote: “Never be so polite, you forget your power / never wield such power, you forget to be polite”; “Never be so kind, you forget your clever / never be so clever, you forget to be kind”.
La canzone colpisce nella sua semplicità: rispetto ad altri brani di evermore, il testo di marjorie non si esibisce in artifici poetici e fa a meno di tutto il bagaglio di orpelli retorici, metafore, sottotesti caratteristici della scrittura di Taylor, perché non avrebbero avuto ragion d’essere, in un brano così: quando si pensa ai nonni, la strada che collega cuore e cervello è un rettilineo, non una via tortuosa fatta di incroci e rotatorie. E allora “What died didn't stay dead / what died didn't stay dead / you're alive, you're alive in my head”.
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “I should've asked you questions / I should've asked you how to be / Asked you to write it down for me / Should've kept every grocery store receipt / ‘Cause every scrap of you would be taken from me”
closure
[Taylor Swift, Aaron Dessner]
Non arriverò certo a dire che closure sia una brutta canzone (un aggettivo salace attribuibile solo a End Game, I Don’t Wanna Live Forever e a quell’abominio del remix di Lover con Shawn Mendes), perché non lo è, né che sia la peggior canzone di evermore (forse quella è cowboy like me), però ha qualcosa che le impedisce di scalare la classifica. Più che altro è colpa della produzione folk-industriale, specie nell’intro, che non aggiunge nulla; semmai toglie. E soprattutto stona sia nella canzone stessa, che poi prende altre direzioni, sia con il resto dell’album. Qualcuno, ben più eloquentemente di me, ha detto che “sembra quasi che si stia provando a connettersi a internet tramite una connessione cavo nel 1997”.
Il testo però ha i suoi guizzi, come “Don't treat me like some situation that needs to be handled / I’m fine with my spite / and my tears / and my beers and my candles”, e il ritornello è molto orecchiabile. Forse è solo questione di acquisire il gusto, perché se il primo ascolto mi ha fatto dire “che madonna succede?” ben presto mi è entrata in testa, cigolii compresi.
Quanto al significato, il commento sulla connessione mi ha fatto pensare che possa, in effetti, trattarsi, se non di un modem (e ci manca solo che Taylor si metta a scrivere le canzoni sui modem, ma a questo punto non mi stupirei) di un’altra machine… magari big, e non stiamo certo parlando della canzone dei Goo Goo Dolls. “The way it all went down”; “Looks like you know that now”; “I know that it's over / I don't need your "closure””; “Don't treat me like some situation that needs to be handled / I’m fine with my spite and my tears / and my beers and my candles” son tutti versi che mi fanno pensare alla travagliata vicenda relativa alla vecchia casa discografica e alla proprietà dei master, cui di recente si è aggiunto un ulteriore capitolo con la vendita degli stessi, da parte della Big Machine, a un soggetto terzo rispetto a Taylor (“Your closure”). Oltre il danno, pure la beffa.
#AlcoholicCount: 1 (beers)
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “Don't treat me like some situation that needs to be handled / I’m fine with my spite and my tears / and my beers and my candles”
evermore [feat. Bon Iver]
[Taylor Swift, Justin Vernon, William Bower - aka Joe Alwyn]
La vita è miseria e poi si muore, e Taylor con questa canzone ha pensato bene di ricordarcelo (ma siamo onesti: ce lo siamo mai dimenticato?).
evermore è una ballad malinconica accompagnata da un pianoforte meraviglioso, in cui si riflette su un periodo di profonda tristezza e sofferenza, che dura tuttora: si cerca di trovarne l’inizio (“I replay my footsteps on each stepping stone / trying to find the one where I went wrong”), si tenta di affrontare il problema, ma senza esito (“Writing letters / addressed to the fire”), si riconosce di non avere gli strumenti per gestire la situazione (“Barefoot in the wildest winter”), e anziché concentrarsi sui passi da fare per uscirne, ci si ferma guardare indietro, quel momento in cui tutto è andato in malora (“I rewind the tape but all it does is pause / on the very moment all was lost”). Tutto questo per giungere all’amara conclusione: che questo dolore sia per sempre (“That this pain would be for / evermore”).
Tuttavia la canzone si conclude con una nota positiva, a cui giungiamo guidati dal bridge. Una volta riconosciuto che esiste qualcosa in grado di darci la forza di andare avanti, allora ecco che cambia la percezione e, forse forse, this pain wouldn't be for evermore.
C’è da dire, tuttavia, che la formula è dubitativa in entrambe le conclusioni: non c’è mai la certezza, nell’uno e nell’altro caso, che il dolore sia o non sia perenne (l’ultimo verso dei ritornelli, infatti, è sempre introdotto da “And I couldn't be sure”), e se da un lato ciò dà speranza, dall’altra ti evita di illuderti troppo. A differenza di Daylight, in cui si dà per certo il lieto fine, qui resta sempre un margine di dubbio.
Questa canzone segna la seconda collaborazione col frontman dei Bon Iver, Justin Vernon, dopo exile. Avendo amato tantissimo quel contrasto meraviglioso tra la voce profonda di Vernon e quella delicata di Taylor, evermore mi incuriosiva parecchio. Purtroppo non posso dire che l'attesa sia stata del tutto ripagata, perché qui manca ciò che rendeva particolare exile, quel chiaroscuro di voci, avendo Justin Vernon deciso di cantare, anziché dall’oltretomba di sotto, dall’oltretomba di sopra; questo tipo di cantato, così alto, a tratti stridulo, è quanto più lontano possa esistere dal mio gusto personale, e se devo essere sincera faccio parecchia fatica ad arrivare alla fine del bridge.
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “I replay my footsteps on each stepping stone / trying to find the one where I went wrong”
right where you left me
[Taylor Swift, Aaron Dessner]
Una delle due bonus track della deluxe edition che ancora non ho ascoltato perché non mi è arrivato il cd, ma non è che mi lamento perché per scrivere ‘sto robo ho esaurito tutta la mia energia vitale dei prossimi sei anni e due canzoni in meno son due canzoni in meno e io non che ci sputi sopra.
#AlcoholicCount:
#CurseWordsCount:
#MurderCount:
#FavLyrics:
it’s time to go
[Taylor Swift, Aaron Dessner]
Come sopra.
#AlcoholicCount:
#CurseWordsCount:
#MurderCount:
#FavLyrics:
WHEREVER YOU STRAY, I FOLLOW
evermore è stato presentato come il seguito naturale di folklore. In effetti, non c’è soluzione di continuità nei due lavori, e lo stesso video di willow, che riprende dove quello di cardigan aveva lasciato, lo dimostra. E nemmeno c’è una cesura tra le sonorità dell’uno e dell’altro, cosa che invece ha sempre caratterizzato il passaggio da un disco al successivo. Taylor stessa ha detto che una volta iniziato (e finito) di scrivere folklore non sono riusciti a fermarsi. È facile capire perché: canzoni di questo tipo, caratterizzate da una commistione di elementi biografici ed elementi di finzione, offrono uno sfogo artistico senza eguali. Probabilmente è stato come attingere a una vena creativa che non si esauriva ma che si alimentava da sola.
Anche in questo caso, ed è superfluo specificarlo, il cavallo di battaglia è costituito dai testi, in cui non si disdegna nemmeno di citare Re Mida e i giardini pensili di Babilonia. In un panorama musicale in cui molto spesso la sostanza recede in favore dell'apparenza, Taylor imperterrita, presumo dopo aver passato il lockdown un po' a registrare un po' a leggersi il Merriam-Webster, continua a sfornare dei testi che davvero non hanno paragone nel mondo mainstream, nel pop soprattutto.
Rispetto al predecessore, dove un ruolo importante hanno le ingenuità giovanili (dalla bambina di seven al trittico cardigan-august-betty) in evermore i temi trattati passano invece spesso sotto la lente cinica e disillusa dello sguardo adulto.
Sempre rispetto a folklore, che mi aveva folgorata subito sulla via di Damasco, confesso che evermore ci ha messo un po’ a carburare, a farsi strada. Probabilmente, folklore aveva dalla sua la particolarità di essere davvero una novità; non tanto (e non solo) per il sound, ma soprattutto per la storia della sua genesi (che tra l’altro è la stessa di evermore, solo che folklore è arrivato prima), cioè di musica creata per alleviare la solitudine e l’angoscia esistenziale dovuta alla pandemia. Con evermore, insomma, la sensazione è “been there, done that” che forse l’ha reso meno speciale ai miei occhi, nonostante sia stato annunciato a sua volta a sorpresa.
E se tutte le canzoni di folklore mi sono parse subito ben distinte nella loro individualità, qui ho fatto più difficoltà a scinderle, e ho dovuto attendere che mi si diradasse la nebbia nel mio cervello (cervello che tra l’altro sta ancora processando this is me trying) prima di essere in grado di distinguere, che ne so, long story short da dorothea (parlo per iperbole, eh!).
Forse, per tutta questa serie di circostanze, mi trovo a preferire folklore, ma avendo fatto sufficienti ascolti di evermore per apprezzarne le varie sfumature e la profondità, mi rendo conto che è difficile dare un giudizio così tranchant: perché al di là di tutto evermore è comunque un disco splendido, e a prescindere dai gusti personali che mi indirizzano più da una parte che dall’altra, una cosa è certa: con Taylor, comunque, si casca sempre in piedi. Visto il periodo natalizio, è un po’ l’annosa questione della faida tra panettone e pandoro: perché costringersi a scegliere quando ci si può strafogare di entrambi con uguale soddisfazione?
Ciao! Alle 00:13 vagavo fra i post del tuo (meraviglioso) blog e mi chiedevo: hai in programma di scrivere un post sul conflitto tra Taylor e Braun-Borchetta? Mi spiego: non un post per scrivere di mero gossip, ma un post informato, giuridicamente parlando, leggendo il quale ci si possa fare un'opinione più precisa sulla controversia? (ammetto che dopo tutto questo tempo non penso di aver pienamente compreso la situazione da un punto di vista giuridico)
Ciao! Scusami tanto se ti rispondo solo ora, ma l'app non mi manda le notifiche e quindi me ne accorgo solo le rare volte in cui la apro.
Intanto, grazie mille per i complimenti. Quanto al post, non credo che ne scriverò perché anche io sto tuttora facendo difficoltà a capire bene i termini della questione. Avevo provato ad approfondire con l'intento di scriverne quando la cosa era fresca, ma ho visto che era un po' troppo complicata (perché giuridicamente sarebbe da andare a vedere la normativa USA e mi pare un lavoro immane). In termini molto generici ne ho parlato sulla recensione di folklore e, un po' di più, in quella di Lover per quella minima parte che credo di aver capito, e penso che mi limiterò a questo, anche per evitare di scrivere castronerie.
Vedremo le polemiche future (che tanto non mancano mai!)
Che cos’è il genio? È fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione. E folklore, l’ottavo album a sorpresa di Taylor Swift, è esattamente questo. È anche un capolavoro, forse IL capolavoro, ma è, prima di tutto e soprattutto, il colpo di genio teorizzato dal Perozzi di Amici miei.
Tuttavia quella definizione, declinata al 2020, è monca: bisogna per forza aggiungervi anche “noia”.
Perché più che il contratto poté la quarantena.
Mentre noi ci parcheggiavamo davanti alla tv per vedere Giuseppe Conte fare nomi e cognomi, o per cercare di carpire da Benedetta Rossi il segreto del pane fatto in casa, e poi litigavamo sulla portata del termine “congiunti”, Taylor Swift si metteva di buzzo buono e scriveva un disco. Così, ex nihilo.
Immagino sia questa la differenza che corre tra un’Artista col pedigree e noialtri comuni mortali, svaccatori seriali, rassegnati all’idea che “tanto moriremo tutti”, come ci insegnava vent’anni fa Wilhelmina Packard, e allora che senso ha sbattersi?
Deve essere bello riuscire a vedere un’opportunità in ogni difficoltà, anziché una difficoltà in ogni opportunità come invece faccio io (ma questo solo se ho gli occhiali: senza non vedo né l’una né l’altra, e allora forse non è poi tanto male).
Perché le cose sarebbero potute andare diversamente. Anche Taylor avrebbe potuto passare tuttu lu jornu a fa’ lu pà e a fettà lu ciauscolo, indossando lo zinale invece del cardigan, e con in mano lo ramarolo invece della chitarra. Meno dea dal multiforme ingegno e più vardascia. Una di noi, insomma. Ma si può accettare di buon grado un divario siffatto; si può rinunciare a una certa dose di identificabilità, se poi noi (svaccatori seriali ma col pane fresco) ne guadagniamo un disco come folklore.
Che è tutto, e pure di più.
Il 23 luglio, quando, all’improvviso, Taylor ha annunciato con un tweet che di lì a poche ore sarebbe uscito TS8, album su cui ancora non avevamo nemmeno iniziato a fantasticare, a meno di un anno dall’uscita di Lover, io ero (svaccata, cvd) sul divano a guardare i Simpson. La mia timeline, me compresa, è andata da 0 a 100 in due decimi di secondo: gente che urlava, gente che si chiedeva se fosse uno scherzo, gente che chiamava il cardiologo perché temeva di infartare, altra gente che invece chiamava il proprio ministro di culto per fare ammenda dei propri peccati perché sì, insomma, Taylor Swift che annuncia un album dal nulla, senza proclami, bandi, gride manzoniane, conti alla rovescia, indizi, senza niente di niente, è il segnale più incontrovertibile che l’apocalisse è prossima. Ancor più di una pandemia, diciamocelo, è Taylor Swift che sposta gli equilibri globali.
Già nell’agosto 2017 aveva modificato lo status Qui Quo Qua di tutto il mondo mondiale pubblicando quella misteriosa clip di un serpente per annunciare l’arrivo di reputation, ma l’agitazione provocata da folklore è di tutt’altra natura; intanto perché relativa a qualcosa di totalmente inaspettato: nemmeno nei nostri wildest dreams potevamo immaginare che in quest’anno di tribolazione e miseria avremmo avuto un regalo simile. Una cosa buona nel 2020, vien quasi da chiedersi cosa ci sia sotto.
Allo stato di febbrile eccitazione senza precedenti ha poi contribuito il cambio di genere, con una virata inaspettata dal pop all’indie folk, e il colpo di grazia l’hanno dato le otto differenti copertine dell’edizione deluxe, che è un po’ come trovarsi in pizzeria e andare nel panico perché si deve ordinare un solo piatto e non tutto il menu.
Ora, non è la prima volta che Taylor si avventura nel folk, ma la splendida Safe & Sound, scritta (e interpretata) per il film Hunger Games insieme al duo The Civil Wars, è stata fino a oggi l’unica incursione nel genere che fosse possibile portare a esempio, e sembrava destinata a restare tale per sempre. A onor del vero, già It’s Nice To Have A Friend aveva un gusto alternativo, e forse avrebbe trovato collocazione più adatta proprio in folklore che non in Lover (se non fosse che, all’epoca, folklore non esisteva nemmeno, quindi quella canzone è destinata a pagare lo scotto della sua ricercatezza con uno snobbamento generale. Chissà che ora le cose non cambino…).
Se vogliamo, un assaggio di come potrebbero apparire i testi di Taylor ammantati di sonorità diverse dalle sue tradizionali (cioè il country e il pop) ce l’ha dato Ryan Adams con il suo cover-album di 1989. Anche se l’idea di base è interessante, non si può, tuttavia, dire che l’esperimento sia riuscito. Se alcune reinterpretazioni in chiave alternative-rock dei brani di Taylor hanno funzionato abbastanza (penso a Welcome To New York, Bad Blood), altre invece ne hanno stravolto completamente la natura e il senso (Blank Space, Shake It Off), risultando banali e noiose, e comunque tutte uguali, tanto che si riesce a distinguerle l’una dall’altra solo perché si conoscono i testi. Quel che mancava a quel progetto era, tra le altre cose, il cuore: è abbastanza ambizioso prendere le canzoni di qualcuno come Taylor, che ha fatto delle emozioni (sue e, in una sorta di rapporto empatico, di chi ascolta) il proprio cavallo di battaglia, e pretendere di riuscire ad avere lo stesso impatto emotivo.
E proprio perché Taylor è una cantautrice di razza, per lei vale per forza l’espressione “se vuoi che le cose vengano bene devi fartele da solo”. O, comunque, con l’aiuto di poca gente che si sa fidata o dalla maestria indiscussa (penso a Andrew Lloyd Webber con cui Taylor ha scritto Beautiful Ghosts, che è tanto meravigliosa quanto il film cui è stata destinata, Cats, è abominevole). Ecco allora, per esempio, che tra i co-autori qui compare di nuovo Jack Antonoff, che ha collaborato con Taylor alla scrittura di alcuni suoi pezzi più belli (per citarne solo un po’: The Archer, Death By A Thousand Cuts, Getaway Car).
E il risultato, ma non c’è bisogno che ve lo dica io che sono di parte (però ve lo dico lo stesso), è fenomenale.
Ora, direi che è inutile dilungarsi ulteriormente, e andiamo al sugo di tutta la storia. Ladies and gentlemen, cari amici vicini e lontani, vardasce di ogni ordine e grado, ecco a voi
il Tomone 5.0™ .
THERE GOES THE LOUDEST WOMAN THIS TOWN HAS EVER SEEN
the 1
[Taylor Swift, Aaron Dessner]
La prima canzone dell’album segna un po’ il passo per tutto il resto, dando un assaggio della malinconia che, dove più e dove meno, lo pervade.
In particolare, qui si guarda al passato e ci si ferma a pensare a come diversamente sarebbero potute andare le cose (“If one thing had been different / would everything be different today?”). E sebbene c’è sì una punta di mestizia, tuttavia non c’è quel rimpianto duro e puro che si può individuare in altri brani come Last Kiss, Back To December, I Almost Do o Sad Beautiful Tragic.
Intanto, in the 1 si riflette da un punto di vista di conquistata serenità (“I’m doing good, I’m on some new shit”; “And it’s alright now”), e immagino che sia proprio per questo che non fa tanto male cercare di capire come sarebbe il presente se si fossero prese decisioni diverse. Infatti si dice che sarebbe stato “piacevole” se l’altra persona si fosse rivelata quella giusta (“But it would’ve been fun / If you would’ve been the one”), e non che la propria esistenza avrebbe svoltato definitivamente e ora non c’è proprio più alcuna possibilità che migliori e tanto la vita è miseria e poi si muore. Non è andata, pazienza. È bello da ricordare, ma nulla per cui serva a qualcosa dolersene ora.
#AlcoholicCount: 1 (rosé)
#CurseWordsCount: 2 (shit)
#FavLyrics: “But we were something, don’t you think so? / Roaring twenties, tossing pennies in the pool”
cardigan
[Taylor Swift, Aaron Dessner]
cardigan è il primo singolo estratto, con tanto di video musicale girato e prodotto durante la quarantena. Non si il tormentone estivo, è semplicemente una canzone che crea l’atmosfera confortevole e rassicurante dell’abbraccio di un caldo cardigan. Checcefrega del cileno e checcefrega se è luglio. Cardigan sia.
(vorrei che sia messo a verbale che, mentre scrivo queste righe, mio fratello gira per casa gridando “Cardigaaaan, cardigaaan” sulla melodia di Sandokan)
La particolarità di questa canzone è il far parte di un trittico, insieme ad august e betty. Come Taylor stessa ha dichiarato, nei tre brani viene raccontato di un triangolo adolescenziale, di un amore giovane e immaturo destinato a disintegrarsi (“You drew stars around my scars / but now I’m bleeding”). Il triangolo è narrato da altrettanti punti di vista. In particolare, cardigan dovrebbe essere il punto di vista di quella che poi sarà individuata come Betty, che scopriremo essere stata tradita da James. Proprio qui si fa riferimento all’inseguire due ragazze e perdere quella giusta (ovviamente la diretta interessata si ritiene tale): “Chase two girls, lose the one”.
Non solo, ma c’è anche un riferimento che ricorre, qui e in betty, cioè l’immaturità giovanile: “When you are young, they assume you know nothing” e “I’m only seventeen / I don’t know anything […]”. Immaturità, dei due, che però caratterizza soltanto James: “‘cause I knew everything when I was young” sono infatti le parole di Betty. La ragazza, proprio in quanto meno scema, ha anche provato a cambiare il finale della loro storia, probabilmente perché aveva intuito che era destinato a essere — e in effetti è stato — come quello di Peter Pan (“Tried to change the ending / Peter losing Wendy”): Peter, che si rifiutava di crescere, ha dovuto dire addio a Wendy che, di ritorno dall’Isola che non c’è, è andata avanti con la sua vita.
(e comunque Peter Pan era un cagacazzo, ma chi te vòle aho #TeamUncino4Evah)
Anche il riferimento ai sampietrini (cobblestone) ricorre in entrambi i brani. Qui mi sembra quasi come se il rumore dei tacchi sui ciottoli (che si sente anche nella canzone) funzioni come una sorta di trigger, ed è per questo che Betty si trova a fantasticare su un amore perduto ma mai dimenticato (“But I knew you’d linger like a tattoo kiss / I knew you’d haunt all of my what-ifs / the smell of smoke would hang around this long”).
Quanto al video, anche questo diretto da Taylor come già quello di The Man, ha trovato l’approvazione di mio fratello (sì, quello di prima, quindi non so quanto valga ‘sta cosa). Io ho trovato di particolare impatto la scena del pianoforte quale àncora di salvezza in un mare in tempesta: mi ha fatto venire in mente la frase “People haven’t always been there for me, but music always has”.
In effetti, il video stesso potrebbe far pensare a una metafora ben più ampia: si parte da una stanzetta piccola, circoscritta e protetta (Taylor che fa musica per il gusto di farlo), poi ci si addentra — letteralmente — nel pianoforte e ci si ritrova in un ambiente più vasto e molto diverso, una foresta magica e rigogliosa (una carriera ormai avviata, il successo, sperimentazione di nuovi generi). Quello che colpisce però è la solitudine, l’unica compagnia è sempre quella del pianoforte (è una sorta di sineddoche: la parte per il tutto, in questo caso lo strumento per la musica). Tant’è che nel testo si dice chiaramente “A friend to all is a friend to none” (inutile circondarsi di tanta gente, le squad che tanto facevano parlare i media, che poi alla fine di vero non c’è nulla). Poi la tempesta colpisce, la stessa tempesta che ha portato a reputation, e infine si ritorna alle origini, si ritorna alla stanzetta, alla musica per amore della musica. E in effetti folklore, nato in un periodo sui generis come il lockdown dovuto a una pandemia, è proprio l’esempio perfetto di arte per arte. Un album nato per l’umanissima esigenza di esprimersi liberamente, e non per rispettare i termini di un contratto.
#AlcoholicCount: 1 (drunk)
#CurseWordsCount: 0
#FavLyrics: “Tried to change the ending / Peter losing Wendy”
the last great american dynasty
[Taylor Swift, Aaron Dessner]
La mia canzone preferita di tutto l’album. Anche se epiphany e seven (e forse anche mad woman) (e forse anche betty) (e forse anche my tears ricochet) (ochèi, sono un tantino in difficoltà) le contendono da molto vicino la posizione più alta del podio, per ora questa persists and resists.
Il brano ha un po’ il sapore di Starlight, in quanto anche qui si raccontano le vicende di persone realmente esistite. Se là protagonisti erano Ethel e Bobby Kennedy (anche loro una dinastia americana), qui è Rebekah Harkness (con una breve menzione al secondo marito William).
Rebekah Harkness, detta Betty (ma non la stessa Betty), è stata una compositrice, scultrice e filantropa statunitense. Con immagini un po’ gatsbyane, Taylor ci accompagna attraverso un matrimonio incantevole e tuttavia pacchiano, feste eleganti e tuttavia rumorose, e poi, dopo la prematura morte di Bill, attraverso una girandola di situazioni che tradiscono lo spirito evidentemente moderno, e il temperamento estroso, della vedova (“Filled the pool with champagne and swam with the big names / and blew through the money on the boys and the ballet / and losing on card game bets with Dalí”; “And in a feud with her neighbor / she stole his dog and dyed it key lime green”). Tra l’altro, nel corso della canzone, ci si riferisce a lei con i superlativi “maddest” (la più pazza) e “most shameless” (la più senza vergogna), probabilmente giudizi che la comunità riservava a chi non viveva seguendo determinate convenzioni (una donna, per di più! Orrore e raccapriccio!).
Interessante è il riferimento a Salvador Dalì, non un semplice tocco di colore: le ceneri della Harkness, infatti, riposano in un’urna progettata dall’artista, dal valore di 250.000 dollari. Can’t relate: la mia urna potrà al massimo essere una scatola da scarpe.
Quel che mi piace della canzone è anche il legame tra la protagonista e Taylor stessa: quest’ultima, infatti, ha acquistato la casa di Rhode Island, la “Holiday House” che qui si menziona, in precedenza appartenuta a Rebekah. Un passaggio di testimone. Mi ha fatto venire in mente la serie antologica Why Women Kill, in cui la medesima abitazione fa da sfondo alle vicende dei personaggi nelle varie epoche in cui l’hanno rispettivamente abitata (1963, 1984 e 2019).
#AlcoholicCount: 1 (champagne)
#CurseWordsCount: 1 (bitch)
#FavLyrics: “They say she was seen on occasion / pacing the rocks staring out at the midnight sea / and in a feud with her neighbor / she stole his dog and dyed it key lime green”
exile (feat. Bon Iver)
[Taylor Swift, Justin Vernon, William Bowery]
Non si faceva un tale parlare di “esilio” dai tempi di Ugo Foscolo, il quale si esiliava da solo ogni trenta secondi (e se ne lamentava pure), perché probabilmente non aveva di meglio da fare. Aprite infatti un social a caso, e ci sarà uno swiftie che starà struggendosi ascoltando exile. E a ragione, perché è un pezzo splendido.
Si tratta di una collaborazione con il gruppo indie folk Bon Iver. È da The Last Time, con Gary Lightbody degli Snow Patrol, che non si aveva un duetto tanto bello. Per fortuna, l’esecranda e improvvida versione di Lover con l’altrettanto esecrando Shawn Mendes è stata ben presto derubricata ad “allucinazione collettiva” ed è come se non fosse mai esistita.
La voce di Justin Vernon, frontman dei Bon Iver, bassa e vibrante, contrasta con quella delicata di Taylor, in piacevole gioco di chiaroscuri, per fondersi meravigliosamente sul finale.
Il contrasto, tuttavia, non è solo sonoro, ma anche concettuale. La canzone, infatti, offre i punti di vista di entrambe le persone coinvolte nella relazione naufragata. Da un lato, c’è chi soffre nel vedere quanto velocemente (“And it took you five whole minutes / to pack us up and leave me with it”, dove quel “five whole minutes” è ironico) l’altra persona si sia dimostrata capace di voltare pagina (“I can see you standin’, honey / with his arms around your body); dall’altro c’è chi si era resa conto che la relazione era sempre stata precaria (“Balancin’ on breaking branches”; “We always walked a very thin line”).
È un continuo rimarcare due posizioni ormai non più conciliabili: “You never gave a warning sign (I gave so many signs)”. In realtà, c’è una cosa su cui sono concordi entrambi: che la storia ormai è finita. Il ritornello, infatti, seppur con minime differenze, è lo stesso per entrambi, e viene cantato dapprima singolarmente e poi insieme.
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#FavLyrics: “You’re not my homeland anymore / so what am I defending now? / You were my town / now I’m in exile seein’ you out”
my tears ricochet
[Taylor Swift]
Il punto di vista di questa canzone è peculiare a dir poco: è quello di una persona trapassata e remota, insomma, morta hai presente la tua maestra la signorina Brenda è morta sparita per sempre morta di una morte orrenda e super dolorosa andata andata andata come il tuo cane il mio cane è morto l’ho messo sotto con la macchina quando sono arrivato tutti quelli che ami intorno a te stanno morendo. L’ambientazione, infatti è una veglia funebre, con tanto di frase cerimoniale di circostanza (“We gather here”).
Solo su questa canzone si può scrivere una tesi di laurea. Taylor ha dichiarato che il pezzo racconta di un “tormentatore incattivito” che si presenta al funerale del defunto oggetto della sua ossessione. Intanto, è curioso l’uso del termine “tormentor”. Non un amante, non una persona cara (sarebbe stata una canzone anche romantica, se così fosse stato), ma un “tormentatore”, una figura negativa: un oppressore, insomma.
Non è un caso che, stando alla teoria che va per la maggiore nel fandom, la canzone riguardi la vicenda Big Machine e le ribalderie messe in atto da quei tangheri ciurmatori di Scott Borchetta e Scooter Braun.
È indubbio che, per molto tempo, il rapporto tra Taylor e la sua prima etichetta fosse stato buono (“Crossing out the good years”), tanto che è stato un fulmine a ciel sereno vedere come sono andate a finire le cose (“Did I deserve, babe / all the hell you gave me? / ‘cause I loved you / I swear I loved you”).
Tutta la questione dei master mai restituiti (“You wear the same jewels / that I gave you / as you bury me”; “You hear my stolen lullabies”) è stato un vero picco di meschinità da parte dei pitocchi di cui sopra, e Taylor non ha potuto far altro che rendere la cosa pubblica, sollevando un polverone (“I didn’t have it in myself to go with grace”), a cui i due pisquani hanno risposto che “noooo, ma figurati se non vogliamo restituirle i master, certo che glieli restituiamo, le diamo un album vecchio per ogni album nuovo che lei butta fuori, una roba super ragionevole, quasi beneficenza, eh, in dodici, toh, massimo quindici anni è di nuovo tutto suo, che occasione ghiotta, e anzi ci feriscono molto queste accuse, è quasi come se ci volesse far passare per mentecatti, cioè, dai, non è proprio possibile, noi, mentecatti, eeeeeh” (“And you’re the hero flying around saving face” — perché, sì, ci hanno provato a salvare la faccia, più o meno nei termini esposti sopra).
Così Taylor è stata costretta a mollare baracca e burattini, a lasciare quella che è stata la sua casa fin dall’esordio, e trovare ospitalità presso un’altra etichetta. (“And I can go anywhere I want / anywhere I want / just not home”). Nel mentre, la Big Machine si è trovata economicamente con l’acqua alla gola (“And if I'm on fire / you'll be made of ashes, too”; “You had to kill me, but it killed you just the same”), avendo perso la gallina dalle uova d’oro e potendo ora contare solo sui diritti delle vecchie canzoni (“And if I’m dead to you why are you at the wake?”). Ci credo sì, che avrebbero desiderato che fosse rimasta e che ora ne sentano la mancanza (“Wishing I stayed”; “but you would still miss me in your bones”). E adesso, be’, ai due crotali tremebondi non resta che piangere la sorte abietta che si sono chiamati addosso da soli. Il verso “looking at how my tears ricochet”, infatti, io lo interpreto nel senso di un karmico rimbalzo. È una ruota che gira, le lacrime di una ora sono diventate le lacrime di quegli altri.
Come Miss American & The Heartbreak Prince è un’unica, grande metafora (il liceo per la politica), così my tears ricochet: grattando appena la superficie del letterale si apre un altro mondo. Analizzare i testi di Taylor è come cadere nella tana del bianconiglio. E come “Alice si era talmente abituata ad aspettarsi solo cose straordinarie” così a noi, dopo un ascolto di folklore, sembra “quasi noioso e stupido che la vita continu[i] sempre allo stesso modo” [Alice nel paese delle meraviglie, Newton Compton Editori, trad. Adriana Valori-Piperno].
#AlcoholicCount: 1 (drunk)
#CurseWordsCount: 0
#FavLyrics: “We gather stones / never knowing what they’ll mean / some to throw / some to make a diamond ring”
mirrorball
[Taylor Swift, Jack Antonoff]
Quando uno pensa a una palla da discoteca, pensa agli anni ’70, ai luccichii, ai lustrini, ai pantaloni a zampa, alla febbre del sabato sera, alla disco music (e, se siete fan dei Simpson, anche a Disco Stu). Insomma, a roba psichedelica e spensierata. Poi è arrivata Taylor che ha detto: “Senti, cocco, reggimi un attimo la strobosfera che ne parliamo”.
Il pezzo è una ballad malinconica in cui ci si paragona a una palla da discoteca, osservata da tutti: ed è proprio per questo che l’unica preoccupazione è quella di compiacere gli altri, anche a costo di rinunciare alla propria individualità (“I can change everything about me to fit it in”; “Shining just for you”).
E il bridge è esplicativo di una vita vissuta solo per gli occhi degli altri: “I’m still on that tightrope / I’m still trying everything to get you laughing at me”; “I’m still on that trapeze / I’m still trying everything to keep you looking at me”.
#AlcoholicCount: 1 (drunk)
#CurseWordsCount: 0
#FavLyrics: “And they called off the circus / burned the disco down / when they sent home the horses / and the rodeo clowns”
seven
[Taylor Swift, Aaron Dessner]
In un commento su YouTube, sotto al lyric video di seven, qualcuno ha scritto che non è che gli altri artisti non siano bravi, è solo che Taylor Swift è differente. Onestamente non avrei saputo dirlo meglio. E questa canzone — sebbene in quest’album sia difficile decidere quale brano, a livello di testo, spicchi di più — è forse la cartina al tornasole delle sue capacità di autrice.
Qui Taylor richiama alla memoria un’amica di infanzia. Il riverbero nella voce contribuisce a creare una certa lontananza temporale. Addirittura, Taylor non è nemmeno in grado di ricordare il viso della sua compagna di giochi (“And though I can’t recall your face”) tanto è il tempo trascorso (ventitré anni almeno).
La canzone è pervasa da una certa dose di levità, acuita anche da questa immagine di Taylor da bambina sull’altalena, così in alto da avere la Pennsylvania sotto di lei. Quel che più colpisce, però, è il contrasto tra contenente e contenuto. La piccola amica, infatti, vive a casa una situazione tutt’altro che leggera, tutt’altro che serena, fatta probabilmente di rabbia e di litigi. Si fa riferimento a un padre sempre arrabbiato, ai pianti e al nascondersi, forse per evitare di assistere all’ennesima lite tra i genitori. Non si faccia, tuttavia, l’errore di credere che l’evidente leggerezza della melodia e della voce di Taylor sia un segno di superficialità. È, piuttosto, il modo migliore per rendere la purezza e l’innocenza dei bambini, anche di fronte a situazioni ben più grandi di loro. Così, cosa c’è di più ovvio e di più facile, agli occhi di una bambina di sette anni, per salvare l’amica dalla sofferenza, se non proporle di diventare delle piratesse? Dopotutto, chi hai mai visto un pirata piangere o nascondersi nell’armadio? Il “then” nel verso“then you won’t have to cry” ha infatti qui un valore consequenziale.
La parte più bella e più esplicativa di questo punto di vista di infantile innocenza è tuttavia data dai versi “I think your house is haunted / Your dad is always mad and that must be why”. Il rasoio di Occam vuole che “a parità di fattori la spiegazione più semplice è da preferire”. Agli occhi di una bambina di sette anni, ignara e inconsapevole delle dinamiche che governano gli adulti, specie quelli arrabbiati come il padre dell’amica, è ovvio che la causa di quel livore non può che trovarsi nell’infestazione di fantasmi della casa in cui vivono. Insomma, che altro mai potrebbe essere? È un verso davvero semplicissimo, ma di un’efficacia incredibile.
Ora, la tematica della canzone me ne ha fatta venire in mente un’altra che mi piace parecchio, Little Toy Guns di Carrie Underwood. Anche lì c’è una bambina che è costretta a nascondersi nell’armadio, tra i cappotti, per non assistere alla scena dei suoi genitori che litigano furiosamente (“In between the coats in the closet she held on to that heart shaped locket”; “Mom and daddy just wouldn’t stop it fighting at the drop of a faucet”; “Puts her hands over her ears / starts talking through her tears”). La canzone è di certo accattivante per l’energia e la potenza della voce della Underwood, ma a livello di testo non ci sono guizzi, è tutto letterale. Taylor, invece, con molte meno parole ma accuratamente selezionate, dipinge un quadro tanto vivido quanto evocativo.
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#FavLyrics: Before I learned civility / I used to scream / ferociously
august
[Taylor Swift, Jack Antonoff]
august è la parte centrale del trittico composto da cardigan e betty. La narrazione qui è affidata all’altra ragazza, ovvero l’avventura estiva di James (quella “summer thing” che si menzionerà in betty).
La loro storia è volata via come è volato via agosto: era impossibile costruire qualcosa perché, nonostante le rassicurazioni (“saying ‘Us’”), James non era mai stato suo (“you weren’t mine to lose”).
Il collegamento con betty è evidente: “Remember when I pulled up / and said ‘Get in the car’” e “She said ‘James, get in, let’s drive’”.
La canzone mi piace ma, come agosto scivola via dal calendario, così questa mi scivola via dalla testa e, per quanto mi riguarda, fatico a ritenerla memorabile (a parte il bridge).
#AlcoholicCount: 3 (wine)
#CurseWordsCount: 0
#FavLyrics: “Back when we were still changing for the better / wanting was enough /for me, it was enough / To live for the hope of it all / cancel plans just in case you’d call”
this is me trying
[Taylor Swift, Jack Antonoff]
Questa canzone mi devasta fin nei più oscuri recessi della mia anima, perché per certi aspetti (molti aspetti) sembra che mi stia descrivendo. E se da un lato è bello vedere messe nero su bianco certe sensazioni (con più eloquenza di quanto potrei fare io stessa), dall’altro mi ci fa rimuginare e quindi niente, soffroh. Perché a una che, ogni mattina, si alza e pensa che non si tratta altro che di un nuovo giorno di un’esistenza sprecata, sentire “I had the shiniest wheels, now they’re rusting” e “They told me all of my cages were mental / so I got wasted like all my potential” fa un certo effetto. E non fatemi nemmeno iniziare a parlare di “I have a lot of regrets about that”.
Particolarmente interessante è il verso “I was so ahead of the curve, the curve became a sphere”. Credo significhi che Taylor fosse così avanti agli altri che a un certo punto si è trovata a dover competere costantemente con se stessa: rectius, l’hanno costretta a competere con se stessa, e un album in meno venduto, e un biglietto in meno staccato erano prova incontrovertibile che ormai fosse finita, kaputt, ciaone (mi ricordo quell’articolo di Forbes, datato 4 gennaio 2018, che titolava “Taylor Swift Ss No Longer Relatable, And Her Ticket Sales Prove It”; ma mi ricordo anche l’articolo del primo agosto seguente, del medesimo autore, che titolava, chissà se con una punta di rammarico, “Taylor Swit’s Reputation Tour Is A Massive Success: Looks Like She’s Relatable After All”). Questo anche quando, a confronto con qualsiasi altro artista, il peggior risultato di Taylor equivale al loro migliore.
#AlcoholicCount: 1 (whiskey). E quanto a me, da astemia che sono, questa canzone mi fa venir voglia di iniziare.
#CurseWordsCount: 0
#FavLyrics: “I’ve been having a hard time adjusting / I had the shiniest wheels, now they’re rusting”
illicit affairs
[Taylor Swift, Jack Antonoff]
Da vera donna del Rinascimento qual è, Taylor non si accontenta di dedicarsi al mero cantautorato poetico e fa una breve incursione nella manualistica, come già a suo tempo con How You Get The Girl. Stavolta, oggetto della trattazione sono le tresche, le relazioni clandestine e, appunto, “illecite”, per la buona riuscita delle quali si danno consigli di comportamento (come fingere di andare a correre, così che il rossore sulle guance sia attribuito all’attività fisica e non all’incontro con l’altra persona — o comunque, a un’attività fisica di altra natura, if you know what I mean).
Ma vabbè, facezie a parte. Non è la prima volta che Taylor parla di tradimenti; è un tema che ricorre: Should’ve Said No, Girl At Home, Babe (canzone poi passata agli Sugarland ma in cui Taylor canta dei versi), Getaway Car.
A differenza delle altre, però, questa canzone è di una tristezza infinita. La prima strofa ha riguardo al fatto che si è costretti a vivere di menzogne, e qualcosa che in condizioni normali sarebbe bella (il rossore sulle guance dovuto a una piacevole emozione) in questo caso non sarebbe altro che un simbolo di infamia, e come tale deve essere nascosto, o giustificato con una squallida balla.
La relazione clandestina, poi, è in qualche misura paragonata alla droga: si è consapevoli che ci sta facendo del male, ma non ci si riesce a fermare (nonostante quello che uno si ripete: “Tell yourself you can always stop”). E se mai un effetto benefico c’è stato, ormai è svanito da un pezzo (“A drug that only worked / The first few hundred times”).
Nella seconda strofa c’è un altro consiglio che si aggiunge a quelli della prima: “Leave the perfume on the shelf”, così che non si lascino tracce. Apoteosi dell’annullamento di se stessi (peggio che in mirrorball): “like you don’t even exist”.
Nel bridge c’è però un colpo di coda, arrabbiato, in cui volano parole dure, durissime parole taglienti (o di certo lo sono per lo standard di Kent Brockman di Canale 6: “Look at this godforsaken mess that you made me”; “Look at this idiotic fool that you made me”) ma alla fine si torna sempre al punto di partenza: “And you know damn well / for you I would ruin myself / …a million little times”.
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#FavLyrics: “And you wanna scream / Don’t call me kid / Don’t call me baby / Look at this godforsaken mess that you made me”
invisible strings
[Taylor Swift, Aaron Dessner]
Questo brano mi fa pensare alla leggenda orientale del filo rosso del destino, secondo cui esiste un filo invisibile e indistruttibile che lega una persona alla sua anima gemella.
(una specie di filo di Schrödinger, in effetti, visto che è rosso e invisibile allo stesso tempo)
(*tap tap* è acceso questo coso?)
Qui, però, il filo è dorato. L’oro, d’altronde, è un colore più adatto a rappresentare ciò che Taylor ci sta raccontando. Se è vero che il rosso è tipicamente associato all’amore, alla passione (ma anche alle intemperanze emotive — non è certo un caso, per esempio, che la Regina di Cuori del Paese delle meraviglie sia contraddistinta dal rosso), l’oro, per parte sua, richiama il sole, la luce, in generale sensazioni positive. È anche un colore prezioso, come prezioso è il legame che condividono i due innamorati.
È evidentemente una canzone molto intima e molto personale, con certi dettagli che fanno pensare a Taylor stessa (“Bad was the blood of the song in the cab on your first trip to LA”; “she said I looked like an American singer”) e non a personaggi fittizi come in altri brani dell’album.
In questa canzone il passato non si guarda con amarezza (“Time / mystical time / cutting me open, then healing me fine”; “Cold was the steel of my axe to grind for the boys who broke my heart / now I send their babies presents”) perché tutto è servito per arrivare alla serenità attuale (“Hell was the journey but it brought me heaven”).
Ora che mi ci fa pensare, anche io credo di avere un filo invisibile che mi lega a qualcosa, e quel qualcosa sono le patatine San Carlo lime e pepe rosa.
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#FavLyrics: “Time / mystical time / Cutting me open, then healing me fine”
mad woman
[Taylor Swift, Aaron Dessner]
Questa è, per me, una punta di diamante in un disco che non è certo composto da zirconi.
Quello che amo di questo brano è come un’incazzatura viscerale e profonda sia stata camuffata con una melodia delicata. Urlare e sbraitare rischia di passare per un semplice bluff, un gatto che si gonfia per sembrare più grande e più pericoloso, e una rabbia espressa con calma e lucidità è molto più temibile. Allora, è interessante il contrasto che si crea tra la pacatezza con cui si pronunciano i versi “Now I breathe flames each time I talk / my cannons all firing at your yacht” e l’immagine che quegli stessi versi veicolano.
Anche la prima strofa è notevole. Non ci si gira troppo intorno, si va dritti al punto: “What did you think I’d say to that?”, come pensi che avrei reagito (al torto che mi hai fatto)? È ovvio che non me ne sarei restata zitta e buona, lascia intendere Taylor. Povero ingenuo figlio dell’estate, hai presente de chi stamo a parlà? Come uno scorpione che, provocato, punge per uccidere, lei uguale. Metaforicamente parlando, s’intende (be’, più che altro si spera).
Tematicamente, trovo che vi sia similitudine con il primo, epicissimo singolo di reputation: “Look what you made me do” da una parte e “No one likes a mad woman / You made her like that”. Poi, ovviamente, le situazioni sono diverse. Se il brano precedente credo riguardasse i tentativi meschini e truffaldini di quei due peracottari di Kanye West e Kim Kardashian di affossare reputazione e carriera di Taylor, qui mi viene da pensare che riguardi invece la vicenda Big Machine, la questione dei master mai restituiti (“‘cause you took everything from me) e la tirannica condizione di un album vecchio per ogni album nuovo pubblicato, ciò che da noi si dice “contratto capestro”. Il capestro non è altro che un cappio, in inglese — wait for it — “noose” (“and you find something to wrap your noose around”). Anche se la coincidenza linguistica (qui nel senso di “identità, sovrapposizione di concetti”) è del tutto fortuita, ciò non toglie che, quale che sia il termine in uso in inglese per quella situazione, le condizioni imposte dall’etichetta precedente non avessero nulla di diverso da un cappio al collo.
Poi in realtà la canzone — ed è qui la bravura di Taylor — può adattarsi a numerose altre situazioni (come già my tears ricochet), per esempio un tradimento non professionale ma sentimentale (“She should be mad / Should be scathing like me”, perché entrambe le donne sono state raggirate dal medesimo “master of spin”). Insomma, ognuno può leggerci quel che vuole, perché i testi di Taylor, pieni di metafore, allusioni, sottostesti sono, come la creta, modellabili a seconda di ciò che, chi ascolta, ha bisogno di sentirsi dire.
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 1 (fuck)
#FavLyrics: “What did you think I’d say to that? / Does a scorpion sting when fighting back?”
epiphany
[Taylor Swift, Aaron Dessner]
Inutile girarci intorno: ne abbiamo fin sopra i capelli della retorica, abbastanza stucchevole, che paragona la COVID-19 alla guerra. È da febbraio che osserviamo giornalisti, giornalai e finanche pennivendoli (il confine tra le categorie è molto labile) usare (più che altro abusare) un linguaggio bellico, fatto di termini come “battaglia”, “fronte”, “prima linea”, “trincea”, “eroi”, che non sai più se stai guardando il tg della sera o un documentario sull’offensiva della Mosa-Argonne.
Taylor, in questa canzone, utilizza il medesimo espediente narrativo: anche lei mette a confronto il virus e la guerra. Con la differenza, però, che lei ne ha tirato fuori un piccolo gioiellino.
(dite la verità, vi avevo spaventati, eh?)
Ha detto di aver preso spunto dalle vicende del nonno a Guadalcanal nel 1942, ma le sue parole nelle prime due strofe evocano immagini universali, non legate a un singolo episodio.
Dopo il primo ritornello, altre due strofe ci dipingono uno scenario differente, non più bellico ma ospedaliero. Qui, tuttavia, anche se resta ugualmente vaga, con i versi “Something med school / did not cover” Taylor richiama alla mente una situazione ben più specifica, quale l’emergenza sanitaria globale del 2020. Emergenza che, infatti, ha colto il mondo alla sprovvista, e ha evidenziato le carenze di chi ha dovuto affrontarla, qualcosa per cui, appunto, l’università non li aveva preparati.
È interessante notare come, al sesto verso della seconda strofa e, parallelamente, al sesto della quarta, Taylor ponga in posizione enfatica, perché all’inizio della frase, i termini “Sir” e “Doc”: questi, da un lato, servono a delineare con maggior chiarezza il contesto (un campo di battaglia e un ospedale), dall’altro rafforzano la metafora, l’accostamento delle due situazioni. In entrambi i casi c’è una autorità superiore cui appellarsi (tant’è che si tratta di un complemento di vocazione), che sia il comandante più alto in grado o il medico.
Nel brano viene anche fatto uso dell’anafora, figura retorica che consiste nella ripetizione di una o più parole all’inizio di versi successivi (“Keep your” / “keep your” ; “With you I” / “with you I”; “Watch you” / “watch you”; “Someone’s” / “someone’s”), con la funzione di sottolineare un concetto. Qui, le parole ripetute (e quindi enfatizzate) richiamano un’idea di tenacia (“keep”), di solidarietà (“with you”), di presenza verso l’altro, anche se magari non si può essere materialmente d’aiuto (“watch you”), del fatto che questi eventi coinvolgono persone che sono qualcosa per qualcuno (“someone’s” — “daughter” o “mother” che sia) e non semplici numeri snocciolati aridamente in un bollettino della protezione civile.
Infine, la strofa “Only twenty minutes to sleep / but you dream of some epiphany / just one single glimpse of relief / to make some sense of what you’ve seen” è comune a entrambe le situazioni, la guerra e la pandemia, in cui si cerca di dare un senso a quello a cui si è assistito.
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#FavLyrics: “Keep your helmet / keep your life, son / just a flesh wound / here’s your rifle”
betty
[Taylor Swift, William Bowery]
L’intro di questo brano, con l’armonica a bocca tipica del folk, mi rimanda direttamente a Bob Dylan, e allora è anche legittimo chiedersi se le risposte alle domande che pone James — il personaggio che qui parla, la canzone è dal suo punto di vista — non stiano soffiando nel vento.
Questa canzone è l’ultimo pezzo del trittico di cui fanno parte anche cardigan (che viene esplicitamente nominato) e august (e infatti si fanno riferimenti all’estate). Delle tre, è quella che di gran lunga preferisco.
James, il traditore, cerca di riconquistare Betty ammettendo sì i suoi sbagli (“The worst thing that I ever did / was what I did to you”), ma giustificandoli con l’immaturità, già accennata in cardigan, dei suoi diciassette anni (“I’m only seventeen / I don’t know anything but I know I miss you”). Ma che, davero?
(e presumo che Betty sia una sua coetanea, però non è tonta come un banchetto quanto lui) (scusa, James, ma sappi che anche se sei un cretino mi ispiri simpatia)
Di nuovo ricorrono i sampietrini, che però qui sono rotti (broken): non perché siamo a Roma sotto l’amministrazione Raggi, ma perché a essere a pezzi è lo stesso James, evidentemente pentito di essere motivo del dolore di Betty. Ma è anche vero che chi è causa del suo mal…
Un altro legame con cardigan è il portico. Betty immaginava infatti che avrebbe trovato lì il fedifrago, una volta raffreddata l’eccitazione della tresca (“I knew you’d miss me once the thrill expired / and you’d be standing in my front porch light”) ed è infatti proprio lì che James progetta di recarsi (“Will you kiss me on the porch in front of all your stupid friends?), una volta arrivato alla sua festa (ed è più di quanto abbia fatto Jake Gyllenhaal, quindi un punto per James). Comunque non credo che poi Betty se lo sia ripreso, perché la canzone finisce con “you know I miss you”, al tempo presente. Se fossero tornati insieme, immagino che James avrebbe detto “missed”.
Ora, questo mini trittico è la cosa più vicina a un concept album che abbiamo mai avuto, ossia un disco in cui si racconta una storia precisa, dove ogni canzone è un capitolo della vicenda narrata. È una tipologia di album molto in voga nel metal (penso ai Rhapsody of Fire, che nei loro dischi portano avanti intere saghe fantasy, o agli Avantasia), e mi piacerebbe davvero tantissimo averne uno di Taylor: sarebbe un esperimento interessantissimo dove lei potrà dare libero sfogo alla fantasia e noi potremo tentare di capire i contorti e insondabili meccanismi che muovono il suo cervello.
#AlcoholicCount: zero, ma tanto al party di Betty non avranno mica servito solo Crodino.
#CurseWordsCount: 1 (fuck)
#FavLyrics: “You heard the rumors from Inez / You can’t believe a word she says / Most times, but this time it was true / The worst thing that I ever did / Was what I did to you”
peace
[Taylor Swift, Aaron Dessner]
Non credo che ascolterò molto spesso questa canzone in un futuro più o meno prossimo o più o meno remoto o comunque più o meno ricompreso nella vasta gamma di possibilità contemplate dalla grammatica italiana. Che in effetti sono ben poche. In realtà non so nemmeno perché non mi piaccia più di tanto, so solo che c’è qualcosa che non mi aggancia. Che ce devo fa, de gustibus.
Se, perlomeno, mi piace parecchio la parte strumentale dell’intro, tutto il resto mi suona come una nenia (parole dure di una blogger davvero strana, direbbe il già citato Kent Brockman), che mi si riprende un po’ solo nel bridge, con alcuni versi cantati abbastanza veloci come fossero uno scioglilingua (“Give you the silence that only comes when two people understand each other / family that I chose now that I see your brother as my brother”).
Questa canzone, più che malinconica, è granitica nel suo disfattismo: “No, I could never give you peace”, dove quel “No” suona come un’affermazione incontrovertibile; “But the rain is always gonna come / if you’re standing with me”.
Per altri aspetti, al contrario, Taylor sembra essere più conciliante con se stessa: “But I’m a fire and I’ll keep your brittle heart warm”. A causa delle circostanze, l’unica cosa che non si può offrire, o garantire, è la pace. Ma, forse, non potrebbe essere già sufficiente tutto il resto?
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 1 (shit)
#FavLyrics: “Swing with you for the fences / sit with you in the trenches”
hoax
[Taylor Swift, Aaron Dessner]
Nella canzone si respira un generale senso di resa (“My eclipsed sun”; “My winless fight”; “I am ash from your fire”; “You knew the hero died, so what’s the movie for?”; “You knew you won, so what’s the point of keeping score?”; “My kingdom come undone / my broken drum / you have beaten my heart”), e ciò è innegabile. Quel che però non mi è chiarissimo è in che termini vada interpretato il brano nel suo complesso: in senso negativo o in senso positivo?
Per quanto riguarda il senso negativo, è presto detto: si canta di una relazione ormai finita che ha portato solo dolore, ma che forse non si riesce a lasciar andar del tutto (“You knew it still hurts underneath my scars / from when they pulled me apart”).
Per quanto riguarda il senso positivo (e in tutta onestà questa interpretazione mi piace di più, perlomeno è così che l’ho intesa fin da subito): c’è stata sofferenza, sì (“You knew it still hurts underneath my scars / From when they pulled me apart”), ed è per questo che Taylor non progettava di innamorarsi di nuovo, dopo le delusioni, ma è successo lo stesso, senza che potesse evitarlo. Ecco allora il significato di quel “But what you did was just as dark / darling, this was just as hard”: l’altra persona ha fatto qualcosa di altrettanto terribile di chi l’ha distrutta: ne ha rimesso insieme i pezzi (col rischio, allora, di mandarla in frantumi di nuovo: l’amore, infatti, è ancora visto come un imbroglio).
La melodia è caratterizzata da un pianoforte che ricorda un po’ una dolce ninna nanna: a maggior ragione questo mi fa pensare a un generale senso positivo del brano.
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#FavLyrics: “You knew the hero died, so what’s the movie for” (SPOILEEEER)
the lakes
[Taylor Swift … ]
La misteriosa bonus track dell’edizione deluxe che ancora non ha ascoltato nessuno.
#AlcoholicCount: ?
#CurseWordsCount: ?
#FavLyrics: ?
PASSED DOWN LIKE FOLK SONGS THE LOVE LASTS SO LONG
Da swiftie anziana quale sono, in circolazione dal lontano autunno del 2009 (sì, poco dopo il famoso incidente degli MTV Video Music Awards), non ricordo di aver mai visto un album che mettesse d’accordo — così tanto d’accordo — sia fan che critica. O forse è proprio perché sono anziana che non me lo ricordo, tutto può essere.
Certo, c’è sempre lo zoccolo duro dei detrattori per partito preso, quelli che preferirebbero affrontare il supplizio del toro di Falaride anziché ammettere che Taylor Swift è brava, ma a parte questa schiera di malmostosi, folklore ha riscosso un plauso trasversale.
In questo disco — nato nelle circostanze peculiari di un 2020 ammorbato — c’è tutta l’essenza di Taylor: di una persona, cioè, che ha sempre creato musica per il solo gusto di farlo. Forse è proprio questo il vero punto di forza di folklore: evidenzia come, per qualcuno, creare sia tanto necessario quanto è, per qualcun altro, fruire quella creazione. Questa seconda cosa, la quarantena ce l’ha dimostrata ampiamente: in un mondo per lo più fermo, costretti a una stasi innaturale sia mentale sia fisica e a un’incertezza paralizzante, noi tutti ci siamo rivolti ai creatori di contenuti e alle loro opere: libri, film, telefilm, musica, fumetti, videogiochi. Nei loro mondi di finzione abbiamo cercato non tanto un modo per combattere la noia imperante, quanto, piuttosto, un modo per non… qual è il termine… ah, sì, sbroccare del tutto. Quello, insomma, che si dice nella scena famosa del film L’attimo fuggente, solo che lì lo dicono meglio. Io, da parte mia, ho letto un sacco, più di quanto riesca a fare in condizioni normali, e quelli in compagnia dei libri sono stati momenti di pace di cui avevo un disperato bisogno (ecco perché dicevo che per me la quarantena è stata un’opportunità).
Ed è stato anche un modo per stabilire un’umana connessione, per quanto filtrata dalla pagina del libro, dallo schermo del computer o dalle cuffiette del nostro lettore musicale, impossibilitati com’eravamo a trovarla al di fuori delle mura di casa. Quella connessione virtuale che ha il suo tramite nell’arte, non solo durante i lockdown, è tanto più potente quanto più c’è una vocazione in chi quell’arte la realizza. In piena pandemia Taylor poteva mettersi a guardare video di gatti e a fare la pizza, e invece ha fatto folklore: non tanto per dovere o per contratto, ma per essenza ontologica. Taylor è una cantautrice, non fa la cantautrice. E credo che quest’album ne sia la prova definitiva.
La mia vita è un pendolo che oscilla incessantemente tra “Ma cosa campo a fare?” e “Se non altro c’è Taylor Swift”.
Non c’è infatti cataplasma migliore, contro il logorio della vita moderna, di un po' di tempo speso a cercare di capire cosa passa per la mente della gattara.
Stavolta l'occasione per tale approfondimento psicologico è data dal video di The Man.
Ora, sui social hanno già scritto e detto tutto su tale argomento, hanno anche già individuato tutti i singoli easter egg e i riferimenti esoterici alla circoscrizione dei Templari di Baranzate bassa, quindi in questo post, che viaggia con Trenitalia, non troverete nulla che non avete già letto in tempo reale su cosechenessunovidirà.covid19.com: pertanto se volete saltare direttamente alla fine dove ci sono le previsioni del tempo, fate pure.
The Man è una delle canzoni più interessanti di Lover (ne ho parlato qui), e il video che l’accompagna non è da meno.
Innanzitutto, è stato scritto, diretto, prodotto, interpretato e posseduto — non nel senso demoniaco del termine — da Taylor stessa, la quale ha evidentemente deciso di darsi all’autarchia. Siamo, devo dire, ancora lontani dalla compiuta realizzazione del concetto “Se vuoi che le cose vengano bene devi fartele da solo” perché, per esempio, la scena della pipì sul muro — per quanto d’impatto — è zoomata troppo e zoomata a caso, ma comunque la gattara merita un plauso per aver provato a mettersi in gioco su un’arte complicata come la regia.
In realtà, la ragione sottesa a questo suo coinvolgimento così capillare nella realizzazione del video è anche e soprattutto un’altra, e origina dal contenzioso sulla discografia precedente a Lover, e i master di cui non è riuscita a ottenere la proprietà. Con la (quasi) totalità della sua produzione artistica in mano a plutocrati viscidi, falsi e tracotanti, a un certo punto Taylor ha deciso che l’unica padrona di se stessa doveva essere, appunto, se stessa (emblematico il disclaimer con l’indicazione del copyright: Taylor Swift in luogo della casa discografica, come invece accadeva in passato). Così non passa certo inosservata la “denuncia” cui dà voce il cartello appeso a un muro decorato con i graffiti con i titoli dei suoi album: “Smarriti: in caso di ritrovamento restituire a Taylor Swift”.
(sia messo a verbale che, se dovessi smarrirmi, anche io vorrei essere restituita a Taylor Swift. Federica Sciarelli prendi nota)
E nemmeno passa inosservata la frecciatina a Scooter Braun, uno dei tracotanti di cui sopra, affidata a un secondo cartello che vieta i monopattini elettrici (“scooter”).
(certo che uno che decide di darsi al business col soprannome “Scooter” dovrebbe essere preso a botte alla stregua di uno che sceglie di farsi chiamare, che ne so, “Apecar”, ma il mondo non è mai stato un posto troppo razionale)
Ora, sebbene questi siano un aspetti senza dubbio importanti da menzionare, il video si concentra principalmente su altre questioni, così come, in effetti, il testo della canzone: i due pesi e le due misure che la società applica tra donne e uomini. E sceglie di mostrarcelo in modo letterale, lasciando tuttavia che sia lo spettatore a unire i puntini, portandolo (si spera) a una riflessione su come sarebbe percepita una donna se facesse quelle stesse cose. Così Taylor mette in scena non solo i comportamenti odiosi degli uomini come il manspreading, cioè l’allargare le gambe sui mezzi pubblici occupando tre posti invece di uno, l’aggressività sul luogo di lavoro (che però viene vista come un atteggiamento sicuro e vincente), ma anche i comportamenti odiosi della società stessa, la quale considera padre dell’anno l’uomo che fa il minimo indispensabile nei confronti della sua progenie, o celebra il playboy che passa da una ragazza all’altra (consapevoli che, a parte invertite, la donna verrebbe invece messa alla gogna).
C’è chi dice che il video avrebbe avuto maggiore impatto se protagonista fosse stata una donna invece di un uomo, ma io non sono tanto d’accordo. Abbiamo già avuto modo di vedere come, fondamentalmente, i media e buona parte della società siano stolidi buoi che, come dire, non capiscono mai un cazzo: se ancora, dopo sei anni, molti faticano a cogliere l’ironia e le metafore del video di Blank Space, non vedo perché si possa pensare che quegli stessi soggetti siano in grado estrapolare un sottotesto. Secondo me ha avuto ragione Taylor a voler fare un video che rinuncia a qualsiasi intento allegorico per mostrarci invece le cose come in effetti sono. Così è, se vi pare. “Gli uomini si comportano in questo modo, gli uomini pensano in questo modo, la società consente loro di comportarsi in questo modo, è ora che ve ne rendiate conto: ecco perché ho messo tutto qui, nero su bianco” parrebbe dirci Taylor. Credo che con questo espediente sia meno marcato il rischio che la “morale della favola” finisca per perdersi.
Se da un lato, però, un video così testuale paga per forza lo scotto di risultare un tantino banale, dall’altro il vero guizzo di originalità è data dalla circostanza che l’uomo è Taylor stessa. Il reparto trucco e parrucco ha fatto un lavoro davvero straordinario (forse secondo soltanto ai miracoli degli addetti Photoshop di Giorgia Meloni). Sebbene fin dalla prima immagine rilasciata in anteprima, con l’uomo di spalle, mi aspettavo una trovata del genere (un po’ a là Drew Barrymore e Cameron Diaz in Charlie’s Angels più che mai), confesso che non l’ho riconosciuta fino all’ultimo, e per ultimo intendo proprio quando fanno vedere la trasformazione. Anche se la voce di The Rock (quella sì che l’avevo riconosciuta) mi aveva insospettita, sono proprio cascata dal pero. A rivederlo, col senno di poi, si capisce che non poteva essere che lei (il modo in cui si muove, tipo quando fa l’occhiolino o allarga le braccia, è inconfondibile), ma per il resto sono ancora F4 basita.
Questo sotterfugio, devo dire, mi è piaciuto tantissimo: dopotutto, nella canzone Taylor riflette su come sarebbe percepita se fosse un uomo, e si può dire che, con questo ben riuscito artificio, abbia toccato con mano le sue teorie.
Nella canzone la gattara afferma anche che, se fosse un uomo sarebbe un tipo “Alpha”. Ebbene, credo di parlare a nome di tutti dicendo che, per quel che ci riguarda, donna o uomo, Taylor è l’intero alfabeto greco.
Meteo: chicchi di grandine grandi come furgoncini su tutta Baranzate bassa.
UN ALTRO ELOGIO FUNEBRE PER UN’ALTRA AMICA ANCORA VIVA
Oops, I did it again.
L’anno scorso scrissi, per la mia amica Silvia, un elogio funebre nonostante fosse ancora viva (e lo è tuttora, contro ogni aspettativa), e di recente si è presentata la necessità di scriverne un secondo, stavolta però per un’altra amica.
Oggi celebro infatti la vita e le gesta di Monica che, dopo trentasei giorni in Cina per lavoro e da poco rientrata sul suolo natìo, non ha preso proprio benissimo il fatto di aver dovuto soggiornare nella città di Wuhan, focolaio di una nuova, mortifera, apocalittica epidemia. Questo, perlomeno, a giudicare dai commenti avvelenati che ha lasciato su Facebook, tanto che Zuckerberg è già al lavoro per un algoritmo tarato esclusivamente su di lei che filtri preventivamente qualsiasi cosa scriva.
Cari amici vicini e lontani, ambasciatori, consoli e Ministri degli Esteri,
siamo qui riuniti oggi per stringerci intorno alle spoglie terrene della nostra cara Monica: amica, sorella, musicista, artefice di un probabile incidente diplomatico con la Cina.
È sempre terribile vedere qualcuno andarsene nel fiore degli anni, ma in qualche misura troviamo conforto nel sapere che hai lottato fino all'ultimo, con la forza che ti ha sempre contraddistinto.
Ci sei di ispirazione, cara Monica, e anche se il mio ideale di viaggio all'estero è mezza giornata a San Marino, ti avrò nella mente e nel cuore ogni volta che valicherò i confini delle Marche.
Il coronavirus avrà pure avuto la meglio sulla tua salute, già debilitata dagli strali che via social network lanciavi al popolo cinese tutto, ma sappi questo: ogni volta che addenteremo un raviolo al vapore noi ti ricorderemo, cara Monica, e brinderemo alla tua memoria, che il tempo non riuscirà a scalfire nei nostri cuori.
Tra l'altro, è anche piuttosto divertente pensare che a ucciderti sia stato un virus che nel proprio nome ha il termine "corona", perché le tue invettive tutto erano tranne che regali. Forse lo erano per gli standard di Fiano Romano, ma non ne sono tanto sicura.
Ti ricorderemo sempre, cara Monica.
Ti ricorderemo per le tue cene di compleanno, unico vero momento di movida jesina, che iniziavano alle sette della mattina e terminavano alle due di notte, e in cui costringevi gli invitati a pelare le patate e a tagliare le mozzarelle.
Ti ricorderemo per le nostre uscite insieme, in cui con la scusa di una passeggiata nell'aria dolce di Pasquetta ci portavi a lavarti la macchina e ti lamentavi pure se restava una goccia sul parabrezza.
Ti ricorderemo per il tuo intrattenerti a parlare con l'avvocato dell'imputato nel processo in cui eri testimone e persona offesa, l'unica cosa che ti avevo detto di non fare.
Ti ricorderemo per i puzzle da sei miliardi di pezzi, le cui tinte andavano dal blu oltremare non tanto in là alle cinquanta sfumature di cosa ti avrà mai detto il cervello.
Ti ricorderemo per la tua capacità di terminare un flacone di deodorante spray con una sola spruzzata, tra l’altro davanti al ventilatore e con me che stavo proprio in direzione del getto d’aria: da quel giorno ho un’aureola con un personalissimo buco dell’ozono in testa. Ora, però, è giunto il momento di congedarci.
E mentre dalle casse wireless prese con i tagliandi della Nutella suona il tuo tributo musicale, ovvero la sigla di Dawson’s Creek, noi a malincuore ti salutiamo.
Va', e insegna agli angeli le basilari norme igieniche.
P.s. salutaci Silsba.
*Attenzione: contiene spoiler, commenti caustici e tracce di frutta a guscio*
Ralph Spacca Internet è stato un quarto di delusione.
Maleficent - Signora del male è stato una mezza delusione.
Frozen II - Il segreto di Arendelle è stato una delusione intera.
Il grafico a torta del mio disappunto ha la farcitura alla confettura di more quando credevi ci sarebbe stata la Nutella.
Frozen - Il regno di ghiaccio è il mio film d’animazione Disney preferito, e siccome riesco a funzionare soltanto un limitato periodo di tempo lontana dalle sorelle di Arendelle, sei anni dopo sono andata al cinema felice come un quokka che ha appena lanciato i piccoli quokki contro il predatore, perché così può vivere un altro giorno.
(che poi, dai, fare cuccioli quokki in questa economia?)
Se non fosse che la felicità di avere un’altra storia ambientata nei fiordi norvegesi ha obnubilato il mio raziocinio, e mi ha resa dimentica del motto che mi aiuta ad arrivare a fine giornata con pacata rassegnazione (motto che, se fossi un personaggio di Game of Thrones, sarebbe sullo stemma della mia casata): “La vita è miseria e poi si muore”.
Ecco. La miseria qua è data dal fatto che Frozen II - Il segreto di Arendelle, è proprio brutto non è assolutamente all’altezza del suo predecessore, e per quel che mi riguarda manca di tutto ciò che ha reso il primo film grandioso.
Alcune cose - ben poche, per la verità - mi sono piaciute, altrettanto poche mi hanno divertita, e sebbene la mia astinenza per le sorelle di Arendelle sia stata abbastanza placata, il film poteva essere migliore.
Molto migliore.
Migliorissimo.
Innanzitutto, non ho potuto fare a meno di notare una certa pigrizia narrativa (che si trascinerà per tutto il film), per cui già all’inizio ho pensato “Sì, vabbè, che palle, andiamo al sodo”. Il film si apre infatti con un flashback di Anna ed Elsa da piccole insieme ai genitori, i quali - oltre ad aver creato traumi indicibili nella psiche delle figlie, come abbiamo avuto modo di scoprire sei anni fa - fanno anche un’altra cosa che mi ha fatto dire “Ma che, davero?”: espongono per mezzo dell’“infodump”. L’esposizione è l’inserimento di informazioni all’interno di una narrazione, e l’infodump è il modo (erroneo) con cui quelle informazioni vengono veicolate al lettore o allo spettatore: tante (troppe) e tutte insieme. Chi fruisce la storia si trova sommerso di nozioni, a carriolate proprio, e non può fare altro che annaspare in cerca di aria. È un artificio, anzi, una paraculata, e non una tecnica narrativa legittima. Questo perché le informazioni vanno diluite e centellinate nel corso della storia (di tutta la storia), non sono mai qualcosa di cui liberarsi furbescamente appena possibile, così da poter passare oltre. Il Re ci rende partecipi all’inizio di tutto ciò che ci servirà dopo (e non sono certo poche cose), e lo stesso fa la Regina, lei però cantando. E il fatto che l’infodump sia camuffato uno da storia della buonanotte e l’altro da canzone è soltanto una paraculata nella paraculata.
Il flashback, invece, è una tecnica ben nota nella narrazione, ma non per questo significa che può essere utilizzata a prescindere e impunemente. Se l’infodump non va mai bene, il flashback deve comunque essere dosato e non abusato, e posto in punti della storia dove è assolutamente necessario che vi sia. Frozen II se l’è sparato proprio all’inizio (della serie “Famo ‘sta sceneggiata così poi passiamo alla roba interessante”), e per me è un grande “no”.
E non fatevi confondere dal fatto che anche Il regno di ghiaccio si apre con Anna ed Elsa da piccole: in quel caso è semplicemente il vero inizio della storia, nel passato rispetto al tempo della storia stessa, che copre velocemente diversi anni fino a quando non ci mettiamo in pari col presente. Nel caso del secondo film, invece, quella scena non è che un non richiesto salto temporale all’indietro rispetto al tempo della narrazione. Ed è proprio questo il problema: io voglio sapere - dopo sei anni - cosa stanno facendo i personaggi che ho tanto amato, come si sono adattati ai cambiamenti portati dal primo film, in che modo sono maturati, quali altre sfide personali li attendono (ovvero quello che il teorico Christopher Vogler etichetta come “Mondo ordinario”, e che colloca all’inizio del primo atto delle storie). Se per rispondere a questi quesiti deve aspettare dieci minuti, il pubblico inizia diventare insofferente. E perché mai alienarselo fin da subito?
In buona sostanza, se l’unico modo che hanno trovato per informare lo spettatore degli antefatti è l’infodump a mezzo flashback, significa che il film andava ripensato strutturalmente daccapo.
A differenza del primo film, che era “character-driven”, Frozen II è invece “plot-driven”. Banalmente, significa che in uno la narrazione “si concentra sul conflitto interno dei personaggi, sui rapporti dei personaggi tra loro. Anche gli obiettivi sono interni. Traumi da superare, errori a cui rimediare, convinzioni da correggere. I cambiamenti sono soprattutto di carattere intimo, personale [...]”, nell’altro “la narrazione si concentra sul conflitto esterno, sull’azione. Gli obiettivi sono esterni: qualcosa da trovare, qualcuno da salvare [...]”*. Nel Regno di ghiaccio, Elsa perde il controllo e Anna vuole aiutarla a sistemare le cose. L’inverno perenne e il pericolo corso da Arendelle sono solo una necessaria conseguenza materiale del malessere immateriale di Elsa e come tale, perché possa risolverla, Elsa deve superare il proprio trauma e accantonare le convinzioni errate che aveva su se stessa. Anna, dal canto suo, deve maturare, e deve colmare quel vuoto che la freddezza di Elsa le ha scavato dentro. In Frozen II, invece, Arendelle è in pericolo perché Elsa, dal nulla e completamente a caso e senza nemmeno avere una mezza idea di come abbia fatto (né lei né noi, perché un conto è l’inverno perenne, coerente coi suoi poteri, e un conto è questo), risveglia i famigerati spiriti della Foresta. Almeno Evelyn che risveglia Imothep ha senso: ha senso perché era un’archeologa competente relegata a fare la bibliotecaria, si trova davanti un manufatto di importanza colossale e decide di leggerlo perché, da persona studiosa e razionale com’è, non crede “alle favole e alle leggende”. Nella decisione di leggere il libro dei morti c’è la solida caratterizzazione del personaggio e la trama si mette inevitabilmente in moto. In Frozen II la cosa è lasciata totalmente a sé stessa, e sebbene sia stata Elsa a risvegliare gli spiriti (cioè ha compiuto attivamente un’azione), il suo gesto non è pregnante come lo è nella Mummia. Gli spiriti potevano risvegliarsi in altre mille maniere diverse, e tutte probabilmente molto più valide.
Quindi, per quanto la posta in gioco sia altissima - la salvezza di Arendelle - non si riesce mai a entrare in sintonia perfetta con le motivazioni dei personaggi, perché il gesto di Elsa non trova una spiegazione sufficientemente apprezzabile, o addirittura adeguata. Dicevo che che l’inverno perenne del primo film è conseguenza del malessere di Elsa. A voler ben guardare (ma proprio con il lanternino) forse si potrebbe dire che anche il risveglio degli spiriti sia conseguenza del (vago e comunque poco approfondito) tormento di Elsa (perché si sente un pesce fuor d’acqua, e sembrerebbe dirlo nella canzone Nell’ignoto): ciò non toglie che non capisco come i suoi poteri di ghiaccio possano fare qualcosa di quel genere. Quindi l’unica risposta che posso darmi è che anche l’azione di Elsa (come i dialoghi tra Anna e Kristoff, e lo vedremo poi) ha avuto luogo soltanto perché così è stato deciso dagli sceneggiatori, e non perché richiesto dallo sviluppo organico della storia (e della psiche del personaggio).
E poi, perché diavolo la voce che chiama Elsa, la chiama proprio adesso? Perché non subito dopo l’incoronazione? Perché non fra vent’anni? Perché non quando era piccola? Perché era in agenda proprio per quel giorno e non per un altro? Perché faceva comodo così? Ochèi.
Siccome la voce, che poi è sua madre (toh!) avrebbe potuto chiamare Elsa in qualsiasi istante dello spazio-tempo, e non c’è una ragione perché lo faccia proprio ora, ciò va a detrimento della caratterizzazione di Elsa. Questo perché Elsa decide di imbarcarsi in un viaggio introspettivo non perché arrivata lei stessa a un punto di rottura, ma perché approfitta di una circostanza capitata in quel momento (e che poteva capitare in qualsiasi altro). Anche se vediamo Elsa agire e prendere decisioni, c’è comunque, nella sua avventura, una componente passiva che mi ha infastidita parecchio.
Per concludere quindi il ragionamento: per quanto, ovviamente, un film plot-driven sia un’opzione validissima (La Mummia che citavo è plot-driven), credo che un sequel di questo genere non possa che risultare soccombente (e molto meno incisivo) rispetto a un predecessore character-driven. Se infatti sei anni fa ero uscita dal cinema con tante riflessioni sulla psicologia dei personaggi, sui conflitti di una e sulla determinazione dell’altra, riflessioni che mi sono divertita a sviscerare in diversi post, questa volta sono uscita con l’unico pensiero di cercare di ricordare dove avevo parcheggiato.
E tutto ciò ci porta all’altro difetto importante di questo film, brevemente già menzionato, ovvero la caratterizzazione dei personaggi. Nel primo Frozen, il disagio di Elsa lo percepiamo fin da subito: ha paura, si considera un mostro, non riesce a venire a patti con la sua natura, per proteggere chi le è più cara ha dovuto allontanarla.
In Frozen II Elsa è ormai regina da sei anni, e noi non abbiamo idea alcuna (o comunque soltanto molto vaga) di come si senta nella sua vita attuale: il fatto che forse non sia mai del tutto riuscita a venire a patti con i doveri che derivano dall’essere regina, e con l’essere l’unica persona di Arendelle ad avere poteri magici lo scopriamo solo alla fine, quando abdica in favore di Anna e decide di restare in mezzo alla foresta, tipo DiCaprio in The Revenant ma con un miglior gusto nel vestire. Ecco, io allora avrei dedicato molto più tempo a scavare nella psicologia di Elsa - e non di una Elsa qualunque ma di una Elsa post Regno di ghiaccio - anziché a istruire il pubblico con una lezioncina sul perché e sul percome della Foresta incantata. Soltanto se avessimo avuto una buona contezza dei suoi tormenti attuali (del tipo: perché nonostante sia stata pienamente accettata dal regno, ancora sente di non appartenere ad Arendelle?) avremmo potuto comprendere molto di più le sue ragioni e le sue decisioni, non ultima quella, insignificantissima, di cedere la corona. Che per carità, io sono davvero felice che Elsa abbia finalmente trovato se stessa e sia in pace nel luogo cui è convinta di appartenere, ma la sua è una risposta a domande che il film ha dimenticato di porci.
D’altro canto, Anna regina è un big fucking yes: la sua ascesa al trono è un quid pluris rispetto a chi ascende soltanto per privilegio di nascita. Anna, infatti, ha dimostrato di avere la personalità di un leader, cosa che (almeno questa) è stata coltivata fin dal primo film. E se qui non ha potuto seguire Elsa fino in fondo, è stato soltanto perché Elsa gliel’ha materialmente impedito. Sebbene Anna sia la sorella minore, per certi versi più immatura, di certo più svagata, non si è mai tirata indietro di fronte a una sfida, e ha sempre dimostrato abnegazione verso gli altri: l’idea di averla in posizione di comando non è affatto campata per aria, e anzi la trovo anche ben giustificata.
La sottotrama relativa a Kristoff e ai suoi goffi tentativi di chiedere la mano di Anna invece è simpatica, ma nulla di più. E i battibecchi tra lui e la principessa sulla carta saranno stati anche carini, ma nella resa sono apparsi forzati, non naturali. Anna sembrava che di proposito volesse fraintendere quello che Kristoff diceva, così tanto per (anche perché dopo tre anni eventuali problemi di comunicazione dovrebbero essere stati risolti). Un esempio su tutti quando, nel mezzo della foresta, Kristoff dice che in circostanze diverse la situazione sarebbe stata piuttosto romantica, e Anna parte subito per la tangente: “In altre circostanze nel senso con un’altra persona?”. Anna, eddaje, non è fisica quantistica, in altre circostanze nel senso “in un momento in cui Arendelle non si trovi sull’orlo della distruzione”. Il suo timore che Kristoff non abbia più interesse per lei, questo sì che è totalmente campato per aria, ed è presente soltanto perché è stato voluto a tavolino in fase di sceneggiatura. Dovrebbero divertire i fraintendimenti di Anna, perché il pubblico sa che è fuori strada (dopotutto Kristoff cerca di chiederle di sposarlo, mica di mollarla), ma in realtà irritano e basta.
E Kristoff, a ogni fraintendimento di Anna, non reagisce mai come sarebbe (narrativamente) opportuno, ma farfuglia sempre e solo giustificazioni senza apportare alcunché alla conversazione. Non c’è mai un vero e proprio “botta e risposta”. Ora, i dialoghi sono l’habitat naturale dei cosiddetti “beat”. I beat non sono altro che transizioni emozionali da un personaggio all’altro. Ad esempio, un personaggio, triste, può dire a un altro personaggio che è triste: quest’ultimo può divenire triste a sua volta, oppure può provare a ribattere e a infondere all’altro un po’ di gioia, e di conseguenza il primo diviene meno triste. Banalmente, quindi, è un costante dare e avere, e si esplica nei dialoghi. Un rimbalzo emozionale continuo da un personaggio all’altro, una partita di tennis giocata con le parole. Nelle scene con Anna e Kristoff questa cosa io, stavolta, non l’ho vista affatto. In un confronto necessario (e in un parallelo perfetto, perché mi vengono in mente le scene a bordo della slitta), i dialoghi tra i due nel Regno di ghiaccio avevano una carica molto più energica, e per ogni colpo sferrato corrispondeva un colpo incassato, da una parte e dall’altra. Pensate ai dialoghi tra Anya e Dimitri in Anastasia (ad esempio, nella seconda scena sul treno) e capirete perfettamente cosa intendo.
E che dire della “morte” di Olaf? Di per sé sarebbe stata una scena dal grandissimo impatto emotivo, traumatizzante perfino, roba che se l’avessi vista da bambina sarei cresciuta disturbata al punto da diventare una serial killer oppure da iscrivermi a giurisprudenza, se non fosse che la lieta risoluzione era stata telefonata già all’inizio del film. Il concetto che “l’acqua ha memoria” è stato ripetuto fino allo sfinimento, così insistentemente (troppo insistentemente) che era ovvio che avrebbe costituito la soluzione di quella sfortunata vicenda. Potreste obiettare che, all’inizio, ancora non si sarebbe certo potuto sapere che Olaf si sarebbe sciolto. No, ma era impossibile anche ignorare le insegne al neon lampeggianti, disseminate nei primi due atti, con scritto “L’acqua ha memoria”. Lo spettatore non dico scafato, ma solo mediamente attento, la prima cosa che pensa è: “Se insistono così tanto su questo concetto, vuol dire che sarà importante più in là”. Lo spettatore può non sapere di cosa quel concetto sia la soluzione, ma non può certo dire di non aver capito che fosse la soluzione a qualcosa. Così, quando vediamo il mucchietto di neve, anziché disperarci ci limitiamo a pensare che non sarà una condizione permanente, e tutta l’emozione che avremmo dovuto provare davanti a una scena simile, semplicemente non la proviamo. E infatti Olaf, novello Nazareno, torna in vita perché il mucchietto di neve ne ha conservata la memoria. Ora, di per sé questa cosa ci starebbe pure, non è sbagliata, anzi, trattasi di una tecnica narrativa imprescindibile. Il problema è che l’hanno usata male. In gergo, piazzare in un punto della storia - in genere nel primo atto - un’informazione che sarà cruciale alla fine prende il nome di “planting and payoff” (semina e raccolta), ed è forse una delle cose che mi piacciono di più dell’arte antica dello storytelling. In questo caso, però, la semina è stata così palese, così lapalissiana, da avere come conseguenza quella di aver svuotato di qualsiasi carica emotiva la resurrezione dell’amato pupazzo di neve. Semplicemente, sapevamo (o ci aspettavamo) che sarebbe accaduto, e non ne siamo stati sorpresi o emotivamente colpiti. È venuto meno, in buona sostanza, quel senso di freschezza, di genialità e di originalità che aveva caratterizzato il Regno di ghiaccio, il quale, in una serie di ben congegnati plot twist e di sovvertimenti del canone delle fiabe (il principe vestito di bianco non è l’eroe ma il cattivo, e il vero amore risolutivo non è quello romantico ma quello fraterno), ha fatto sì che lo scioglimento di Anna ci cogliesse tutti abbastanza impreparati. Non dico che giunti a quel punto fosse impossibile rendersi conto di quello che sarebbe avvenuto, ma di certo non l’abbiamo capito all’inizio del film come in questo caso. Sarebbe stato molto più efficace se avessero fatto un’unica, singola semina di quel concetto, lasciare che lo spettatore lo “registrasse” nel subconscio, e lasciargli fare due più due alla fine,“col senno di poi”, ovvero una volta visto Olaf ricomporsi. Così mantenendo in vita il senso di freschezza e di sorpresa.
Per contro, ben più sottile e per questo molto più apprezzato, il “planting” (che forse è più un foreshadowing, cioè un’anticipazione) di Anna che, all’inizio del film, abbraccia Olaf e gli canta “I’m holding on tight to you” (che nell’adattamento italiano purtroppo si è perso), cosa che la vediamo effettivamente fare quando il pupazzo le muore in grembo.
La memoria dell’acqua, peraltro, costituisce anche un pigro e forzato “plot device”, ovvero l’espediente narrativo per cui un elemento della narrazione viene introdotto dall’autore “in modo deliberato, con lo scopo unico o principale di consentire un determinato sviluppo della trama”**. È proprio grazie ad esso che Elsa scopre i segreti della sua famiglia e di quello che è realmente accaduto alla Foresta incantata, ovvero tutto ciò che serve sapere a lei e ad Anna (che capisce di dover distruggere la diga) per risolvere la situazione. Decisamente troppo comodo così. Anche in questo caso, se l’unico modo per portare avanti la trama è fare uso di mezzucci, significa che la storia ha un problema di fondo abbastanza importante, e andava rivista a livello di struttura.
Altra cosa che mi ha fatto storcere il naso è il modo in cui viene impedita la distruzione di Arendelle, ovvero Elsa che congela lo tsunami provocato dalla rottura della diga. Tutto bello e tutto giusto e forse anche legittimo, se non fosse che Elsa fino a tre decimi di secondo prima era congelata ella stessa, e il suo arrivo improvviso in sella al cavallo acquatico a salvare la situazione ha tanto il sapore di un deus ex machina. Anche qui, ma che, davero?
Infine, sul serio volete farmi credere che Elsa andrà il venerdì alla serata giochi, ma è restata nella foresta il giorno dell’incoronazione di Anna? Cosa sono, arresti domiciliari? Essù, le basi proprio.
In definitiva, questo film non mi ha lasciato nulla, ma nulla proprio, se non la sensazione che la storia sia stata palesemente (e in modo grossolano) costruita a posteriori, e che all’epoca del primo film non avessero abbozzato nemmeno mezza idea di sequel. Quello che manca è un’organicità, un filo conduttore che sia veramente un ponte tra i due i film (tanto quanto Elsa è un ponte tra due culture), e non una cosa posticcia e incollata ex post come è la storia di questo secondo film. Per dire, veniamo a scoprire che Iduna, la madre di Anna ed Elsa, fa parte - guarda caso - del popolo dei Northuldri, la cui popolazione ha i peculiari tratti somatici delle popolazioni artiche. Ebbene, la genetica non è un’opinione, eppure né Iduna, né Anna né Elsa hanno ereditato alcuno di quei tratti. Ecco, venitemi a dire che questo plot twist non sia stato creato a tavolino anni dopo. Stessa cosa per lo scialle della madre, che guarda caso Elsa inizia ad indossare in questo film, ed è proprio lo stesso scialle che permetterà di riconoscere Iduna come una degli appartenenti ai Northuldri. E lo stesso discorso vale per il vascello di Arendelle scopertosi arenato non nei mari del sud, ma guarda caso nel mare oscuro, a due passi da casa e a due passi dal ghiacciaio Ahtohallan (che sulla mappa sembrava lontanissimo e invece tra quello e Arendelle c’è tipo la stessa distanza che c’è, boh, tra Ancona e Sirolo). Troppi “guarda caso” per i miei gusti, ecco.
Inutile dire che Frozen II mi ha reso timorosa del futuro: c’è un altro film che aspetto con vera impazienza, il sequel di quello che per me è stato il miglior film del 2018, cioè A Quiet Place. E se mi tradisce John Krasinski come mi ha tradito Frozen II, io non ho davvero più alcun motivo per campare andare al cinema.
Per quanto invece riguarda le canzoni, anche se ci ho messo un po’ ad orecchiarle, dai e dai mi sono piaciute. L’unica che, per quanto bellina, mi ha lasciata veramente perplessa è quella di Kristoff, troppo poppettara rispetto al resto, e soprattutto sembrava la parodia (voluta? Non voluta?) di un pessimo video musicale anni ’80. Forse è stato questo il mio più grande “ma che, davero?”.
Ma la verità è che, musicalmente parlando, c’è solo una cosa che è fuori da ogni grazia di Dio: la versione di Nell’ignoto fatta da Giuliano Sangiorgi. Siccome per un’ora e mezza di film non avevo sofferto abbastanza, lui ci ha voluto mettere il carico. Credo che i miei timpani ne siano usciti irrimediabilmente danneggiati, ed è stata la prima volta in vita mia in cui ho rimpianto di non avere l’otite. Sangiorgi macella canta la canzone nei titoli di coda, cosa che in originale è spettata a Brendon Urie dei Panic! At The Disco, con la piccola differenza che il primo, rispetto al secondo, non arriva alle note alte nemmeno con l’ausilio dell’autoscala dei pompieri. Non solo, ma la voce gli cala come un aereo che precipita verso l’inevitabile spiaccicamento, che in tutta onestà è una fine preferibile rispetto al dover sentire lui mentre viene sgozzato. Se pensavate che la versione di All’alba sorgerò fatta da Violetta fosse terribile, fidatevi: questa è peggio. L’unica consolazione è che Serena Autieri nel canto fa sempre la sua porca figura e pertanto la sua interpretazione, calda, lirica, viva, piena di emozione, è approvatissima (e infatti la ascolto a ruota). Come, Ça va sans dire, è approvatissima quella di Brendon Urie.
Ora, mi rendo conto di aver scritto un post veramente molto critico, quindi vorrei chiudere su alcune note positive (note che comunque Sangiorgi non sarebbe in grado di prendere):
la quasi totale assenza dei troll di montagna. Perché davvero, un’altra canzone come quella del primo film e mi sarei fatta brillare in mezzo alla sala;
la salamandra spirito del fuoco, che è carina e coccolosa tanto quanto il Pascal di Rapunzel;
il riassunto di Olaf (sia nel film sia nella scena post credit)
la fiducia incondizionata che Anna ripone in Elsa, e il supporto che non manca mai di darle;
la reunion tra Anna, Elsa, Kristoff e Olaf;
in particolare, quella tra Elsa e Kristoff, perché è bello vedere come il montanaro si sia scavato una nicchia nel cuore della cognata (anche considerato quanto Elsa sia protettiva verso Anna)
la reazione di Anna alla proposta di matrimonio, che ho trovato molto realistica e ben poco cartoonesca. Adesso mi serve un terzo film (possibilmente migliore di questo) con almeno un paio di piccoli quokki dai capelli rossi, perché voglio vedere Anna genitore 1 ed Elsa e Olaf zii;
l’ho già detto e lo ripeto, Anna regina di Arendelle. A vederla, mi sono sentita orgogliosa come una vecchia zia;
Olaf tutto in ghingheri con un abito da cerimonia, nonostante avesse detto che i vestiti gli danno noia, perché evidentemente per Anna era disposto a fare un sacrificio;
il contatto fisico tra le sorelle: non per forza le cose eclatanti come gli abbracci di reunion, ma anche e sopratutto le piccole, come una mano appoggiata su un braccio. Dopo quella distanza che Elsa aveva imposto fino a tre anni prima, vederle così vicine ha sciolto il mio cuore arido e criticone;
in generale, la fotografia, l’animazione e le scene d’azione, che non hanno nulla da invidiare a quelle di un film di avventura dura e pura (ho adorato Anna che si fa inseguire dai giganti e li costringe a distruggere la diga). Se non fosse che con le sole scene d’azione ci faccio poco: io sono affamata di belle storie e di personaggi approfonditi, e questo Frozen II è carente sia delle une sia degli altri.
Quindi niente, credo che ora andrò a rivedermi il Frozen-arc di Once Upon A Time, un telefilm a cui sono affezionatissima anche se fatto da sceneggiatori che più passava il tempo più diventavano cialtroni, ma che almeno quella storyline l’hanno fatta davvero bene. Cosa che di certo non si può dire di questo film.
* Le definizioni riportate sono tratte dall’articolo “Meglio un romanzo plot-driven o character-driven?” di Edy Tassi (che ringrazio per avermi concesso di citarle), pubblicato su www.edytassi.it
** Definizione tratta da Wikipedia alla voce “Espediente narrativo”
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Alla fine è successo: sono diventata avvocato. Se c’è un uso adatto della gif di Paola Cortellesi che dice “E sticazzi?”, è questo.
Per chi ha seguito, sui vari social, la telecronaca minuto per minuto del mio tracollo mentale, tracollo che più andavo avanti a studiare più diveniva evidente, ormai saprà per certo due cose: 1) che la chiave del successo è lamentarsi, sempre, comunque, costantemente, di qualsiasi cosa (soprattutto di essere nato); 2) che se mai dovesse avere un problema legale, potrà rivolgersi con fiducia a qualcun altro.
Ora, a dicembre avevo pubblicato un piccolo vademecum per i poveri sfigati che dovranno sostenere lo scritto, considerazioni per lo più logistico/fisiologico/organizzative (che affrontava temi spinosi quali: “per quanto tempo dovrò trattenere la cacarella a fischio?”). Stavolta, come un qualsiasi testo Giuffrè che si rispetti, voglio - a futura memoria per i futuri sfigati - scrivere le domande che mi hanno fatto, perché avere un’idea di cosa chiedono le commissioni fa sempre comodo (considerando che alcune domande sono molto più ricorrenti di altre).
Ordinamento professionale e deontologia: conferimento dell’incarico da parte di un terzo (art. 23 del codice deontologico). Tra le domande più frequenti, che so essere state fatte nella mia medesima sessione e in altre precedenti, il procedimento disciplinare e le sanzioni disciplinari.
Procedura civile: prima udienza di comparizione e trattazione, procedimento di sfratto, espropriazione forzata.
Diritto penale: concorso materiale e formale di reati, concorso apparente di norme, reato continuato, peculato.
Diritto costituzionale: riserva assembleare (a cui lì per lì avrei voluto rispondere “Ho forse la faccia di qualcuno che sa cosa sia la riserva assembleare? Vorrei chiedere l’aiuto da casa”), legge di delegazione, illegittimità costituzionale dell’atto delegato, tipi di sentenze della Corte Costituzionale.
Diritto dell’Unione Europea: ricorso per annullamento, efficacia della sentenza di annullamento della Corte UE.
Diritto ecclesiastico: matrimonio concordatario (anche questa è una domanda che fanno con una frequenza molto maggiore di quella con cui io mi chiedo perché diavolo mi sia iscritta a giurisprudenza) (che è paurosamente spesso).
Ora, un paio di consigli: considerato che per prima cosa ti chiederanno dei compiti, e a quali conclusioni sei giunto, evita (come la sottoscritta) di scaricarteli e rileggerteli al volo un’ora prima di essere chiamato, dopo averli consapevolmente ignorati per tutta l’estate.
Anche se, a ben vedere, l’unico consiglio utile per affrontare questa mitragliata di domande spalmate in un’ora di interrogazione è uno solo: drogarsi sfoggiare una sicurezza inesistente. Più ti fai vedere sciolto e spigliato, meno inclini saranno a dar peso alle stronzate che andrai inevitabilmente a dire. La cosa buffa è che all’università non sono mai stata né sciolta né spigliata, e se mi prendevo un secondo per pensare alla risposta (segno evidente che io, quella risposta, la ignoravo completamente) non riuscivo a ripartire nemmeno con il defibrillatore, e dunque a passo lento mi avviavo lungo il viale alberato noto come “Scena muta”. Se c’è una cosa che mi ha stupita di questo orale, è come sia stata in grado di lasciare tutta la titubanza oltre la porta: anche quando mi sono impelagata in un esempio non del tutto calzante sulla continuazione del reato (“Dottoressa, si è messa lei in questa situazione” mi ha detto la commissaria. “Eh, lo so” ho risposto io), sono riuscita a proseguire scialla e tranzolla come se il fatto che a quel punto non avessi la più pallida idea di cosa stessi dicendo non fosse poi questo big of a deal.
C’è da dire che una cosa molto apprezzata è la capacità di ragionamento: la domanda sulla riserva assembleare mi aveva lasciata del tutto interdetta, e quindi mi è stato chiesto - evidentemente per darmi l’imbeccata - quali altre riserve conoscessi. In quel caso prontamente ho risposto “di legge” e “di Costituzione”, e sono stata dunque in grado di dare una definizione della prima ragionando per analogia: “Se la riserva di legge è questo, e la riserva di Costituzione è quest’altro, allora la riserva assembleare è ‘sta roba qui. Sbem, mic dropped, Mattarella be proud”.
In effetti, un altro consiglio - forse più facile da seguire del precedente, perché se uno si agita c’è poco da fare, si agita - è quello di parlare con gli altri candidati, e approfittare dell’occasione per chiarire qualche dubbio, perché è verissimo che la fortuna aiuta gli audaci. Per dire, nella procedura civile esiste un rito speciale chiamato "Procedimento per convalida di sfratto". Sta in fondo al codice e in fondo al manuale, e quando arrivi in fondo al manuale sei stufo, e leggi di sfuggita, di fretta proprio, perché tanto, dai, non me lo chiede mica.
Ecco.
Se non fosse che io, mezz’ora prima, avevo chiesto alla ragazza che sarebbe stata interrogata dopo di me, e che avevo visto portava anche lei procedura civile, “Senti un po', ma il procedimento per sfratto che cazzo è, di preciso?”.
Una botta di culo così, cioè un culo delle dimensioni di quello di Kim Kardashian, non mi capitava dalla maturità, quando la professoressa di greco - dagli acclarati poteri divinatori - ci diede, come ultimo compito in classe, una versione che riteneva papabile all’esame (“Un codice etico per lo storico”, di Luciano). Va da sé che non ricordavo alcuna delle correzioni fatte dalla prof, ma siccome ci avevo preso 6.5, sono andata a memoria e in seconda prova l’ho tradotta tale e quale. Va ulteriormente da sé che dopo quella botta di culo ho accumulato sfighe per undici anni, cioè fino al 23 settembre 2019, giorno in cui mi hanno detto che sono “idonea” alla professione. Va ancora più ulteriormente da sé che la prossima botta di culo è stimata per il 2030, sempre che il riscaldamento globale non mi abbia uccisa prima.
Ad ogni modo, la morale della favola è: studiate lo sfratto pure se sta in fondo al libro, e chiacchierate con gli altri esaminandi.
Ma soprattutto non fate giurisprudenza.
#Avvocato #esame di stato #esame di stato avvocato
you gotta get with my friends. Si può dire, per restare in tema spicegirlsiano, che questi amici siano i precedenti sei album di Taylor Swift: Taylor Swift (duh), Fearless, Speak Now, Red, 1989 e reputation. C’è, infatti, una differenza fondamentale tra quelli e Lover, il suo ultimo lavoro, che non riguarda né il genere, né la poetica: Lover è il primo disco pubblicato con la nuova etichetta, la Republic Records, e non con quella storica che era la Big Machine Records. Invero, il trasloco ad altra casa discografica non è stato propriamente un fulmine a ciel sereno, perché si sapeva da un po’ che il suo contratto era in scadenza, e non c'erano voci di un rinnovo. Ciò che, tuttavia, ha creato un vero e proprio terremoto - tanto nei fan quanto nell’industria musicale stessa - è stato il motivo sotteso a questa rivoluzione: il fatto che, all’avvicendarsi di un nuovo consiglio di amministrazione nella Big Machine dopo l'alienazione della stessa, abbia fatto seguito il categorico rifiuto di vendere a Taylor i master delle canzoni prodotte e distribuite sotto l’egida di detta casa discografica fino a quel momento, ovvero fino a reputation. A onor del vero, le era stato proposto di “riguadagnarseli” uno a uno: un vecchio album per ogni nuovo, una clausola che più che vessatoria era semplicemente ricattatoria.
Ora, per quanto i diritti di autore - morali e, in parte, economici - siano comunque riconosciuti, in questo modo Taylor ha perso (ed è evidente che non l’abbia mai avuto) il pieno controllo della sua produzione musicale. In quanto di proprietà di altri, infatti, non può opporsi all’utilizzo che quegli stessi decidano di farne: se ridistribuirla e come, se utilizzarla e come (film, pubblicità…). Lover, d’altro canto, costituisce un vero e proprio spartiacque tra il passato e presente, in quanto si tratta del primo album che Taylor possiede davvero. In effetti, la questione dell’avere piena disponibilità del proprio lavoro artistico è diventato in breve il pièce de résistance del suo pensiero nel contesto del business musicale: non c’è intervista, dopo che la cosa è diventata di pubblico dominio, in cui non ne abbia fatta menzione, e nella live-chat per il rilascio del video di Lover è stato il primo consiglio che ha dato rispondendo alla domanda su cosa consigliasse a chi volesse intraprendere la carriera di cantautore: “Cerca di fare del tuo meglio per avere la proprietà del tuo lavoro”. Come già per le note questioni Spotify e Apple Music (di cui potete leggere qui) Taylor si trova a fare da apripista per una conversazione più ampia, che non riguarda solo lei stessa, ma tutti gli artisti in generale. In questo senso è un po’ come il Titanic: è necessario che contro l’iceberg si schianti qualcuno o qualcosa di molto grosso e di molto rilevante, perché poi ci si adoperi per cambiare le cose. Così, se è stato proprio il naufragio del Titanic ad avviare il processo di riforma della legislazione marittima, rendendola più rispondente alle esigenze emerse l’indomani del disastro (per farvela molto breve: scialuppe in numero sufficiente per tutte le persone a bordo, operatori radiotelegrafici in servizio giorno e notte, generatori ausiliari di corrente, scafi rinforzati, riduzione della velocità in presenza di ghiaccio), così Taylor si appresta a rivoluzionare (di nuovo) l'industria discografica. Questo perché la gattara ha sempre dimostrato di riuscire a stare a galla con più di quattro compartimenti invasi dall’acqua, e siccome è sempre la prima a sbatterci il muso e non è mai tipa da lasciar correre, e vista e sperimentata la sua influenza, sono sicura che nel prossimo futuro si assisterà a una qualche inversione di tendenza. O perlomeno, il che è comunque auspicabile, i giovani artisti si affacceranno in questo mondo con una maggiore consapevolezza di quello che li aspetta, e forse sapranno anche tutelarsi.
Fatta questa dovuta premessa, Lover. È un bell’album. Un gran bell’album. Anche se non sono ancora sicura se sia allo stesso livello di 1989, che per me è il non plus ultra a livello spirituale, ecumenico e grammaticale, di sicuro si colloca sul podio. È un album sull’amore e tutte le sue sfaccettature - positive, negative, finanche spaventose - e il fatto che una persona quale yours truly, che non è mai stata innamorata di niente e di nessuno se non di Floppy, il suo gatto (e, ochèi, di John Krasinski), lo piazzi così tanto in alto nella sua classifica personale, è piuttosto eloquente di come, tredici anni di carriera e sette dischi dopo, Taylor Swift ci sappia ancora fare.
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Com’è ormai tradizione all’uscita di ogni nuovo album, in questo papiro oscenamente lungo proporrò la mia analisi dei brani di Lover. Devo dire che, rispetto agli altri di cui ho scritto (Red, 1989 e reputation) ho avuto parecchia difficoltà a fare mente locale e a ragionarci sopra. È vero che questo disco arriva in un momento, per me, psicologicamente davvero sfibrante, ma non è solo questo: il fatto è che, dietro al pop energico, accattivante e orecchiabile, Taylor ha saputo nascondere una complessità - umana e artistica - che ho faticato a mettere per iscritto. Mai come con quest’album ho pensato, infatti, che la musica di Taylor vada lasciata fluttuare nell’etere senza doverla per forza ancorare a qualcosa, qualsiasi cosa, che sia un’analisi, un ragionamento, un goffo tentativo di sviscerarla. Anche in questo senso il divario tra Lover e il suo immediato predecessore, reputation, non potrebbe allora essere più marcato: non solo per le atmosfere calde, rassicuranti e (per lo più) felici dell’uno rispetto a quelle cupe, elettriche, a tratti nervose dell’altro, ma anche e soprattutto perché reputation era una vera e propria presa di posizione, i cui retroscena non potevano non essere districati.
Ora, pur essendo senz’altro vero quanto sopra, io nella vita solo due cose so fare: lamentarmi di aver fatto giurisprudenza, e scrivere di Taylor Swift. Quindi, cari amici vicini e lontani, ecco a voi
il Tomone 4.0.™.
P.S. Riproporrò in questa sede la conta alcolica, che è stata molto apprezzata nel tomone su reputation, anche perché qualcuno dovrà pur farsi carico della evidente tendenza di Taylor all’etilismo. Io, nel dubbio, metto il SerT tra le chiamate rapide.
LADIES AND GENTLEMEN, WILL YOU PLEASE STAND?
I Forgot That You Existed
[Taylor Swift, Louis Bell, Adam Feeney]
La traccia di apertura dell’album pare, almeno di primo acchito, fuori posto: per il tema trattato, infatti, sarebbe sembrata più idonea una sua collocazione in reputation, a chiusura del cerchio. L’interpretazione che io avevo dato di quel disco, infatti, è quella di un percorso organico di crescita in cui si parte dall’affrontare di petto il problema (un vero e proprio invito a farsi sotto, dicevo nel commento a I Did Something Bad) e si arriva al momento in cui ci si rende conto che di certe cose è necessario farsi una ragione e passare oltre (This Is Why We Can’t Have Nice Things), tant’è che, chiosavo, “TS6 indugia molto di più sulla rinascita che sulla rivincita”.
Se ci si sofferma appena un po’ di più, tuttavia, si comprende come, invece, abbia senso che si trovi in TS7: innanzitutto, serve del tempo per arrivare a provare quell’indifferenza celebrata nella canzone, serve del tempo per riuscire a vedere le cose dalla giusta prospettiva e con il giusto distacco. Tematicamente sì, questo brano avrebbe avuto senso in reputation, ma forse sarebbe stato un po’ prematuro: avrebbe avuto più il sapore di un “pio desiderio” (in quanto le ferite erano ancora aperte) che di una vera e propria realizzazione di quanto predicato e, proprio per questo, l’affermazione di imperturbabilità sarebbe risultata meno credibile. Inoltre, se del caso, avrebbe potuto trovarsi in reputation soltanto se accompagnata da una produzione ben più corposa: così presentato, infatti, il brano è orecchiabile senza dubbio, ma in qualche misura piuttosto basilare, senza guizzi o trovate brillanti (e anche come durata - nemmeno tre minuti - è piuttosto sottotono). Ma, e questo è il nodo della questione, è giusto così. Anzi, non potrebbe (né dovrebbe) essere altrimenti: è la dimostrazione concreta che quell’indifferenza sia stata raggiunta sul serio.
#AlcoholicCount: 0
#FavLyrics: “Sent me a clear message / Taught me some hard lessons / I just forget what they were”
Cruel Summer
[Taylor Swift, Jack Antonoff, Annie Clark]
Chiariamo una cosa, Taylor: non hai diritto alcuno di qualificare un’estate come “crudele” se non l’hai passata sopra i libri a studiare per l’esame di Stato per avvocato. La tua sarà pure “crudele” ma la mia è inumana e probabilmente in contrasto con la CEDU, quindi nella gara a chi ha un'esistenza più misera e barbina vinco io, stacce.
Detto ciò, la canzone sarebbe stata un perfetto primo singolo (estivo, a maggior ragione), affatto impegnato e impegnativo ma energico e accattivante, che di sicuro avrebbe destato curiosità dell’album, e mi ha stupito il fatto che non sia stata estratta, lasciando invece l’incombenza a ME!.
È piuttosto interessante notare come il brano ricordi per molti aspetti Love Story (“And I snuck in through the garden gate / Every night that summer just to seal my fate” - “So I sneak out to the garden to see you”) con la differenza che se in Love Story la relazione deve restare clandestina (“We keep quiet 'cause we're dead if they knew”), qua invece è vissuta (o almeno questa è l’intenzione) alla luce del sole (“I don't wanna keep secrets just to keep you”).
Curiosamente, se ascoltate una di seguito all’altra, Getaway Car e Cruel Summer sembrano operare una transizione senza soluzione di continuità (in questo vi è utile attivare l’opzione “dissolvenza brani” di iTunes), e dove l’una fisiologicamente cala l’altra inizia a crescere, come se fossero, però, la stessa canzone.
#AlcoholicCount: 4 (drunk x2, bar x2)
#FavLyrics: “Devils roll the dice, angels roll their eyes / And if I bleed, you'll be the last to know”
Lover
[Taylor Swift]
La canzone che dà il titolo all’album fa proprio venir voglia di essere innamorati (ma per fortuna poi passa). Vabbè, dai, cinismo a parte è una canzone dolcissima, e il primissimo ascolto ha avuto su di me l’effetto di farmi vivere la giornata in modo meno scorbutico del solito.
Di questo brano mi piace, anzitutto, la presenza massiccia e preponderante del basso in apertura (il suono del basso elettrico è tra quelli che amo di più al mondo, insieme alle fusa di Floppy), che fa venire subito alla mente un ballo tra due sposi: riesco vividamente a vedere la scena, da una parte una piccola orchestra, al centro i due sventurati che ondeggiano come un pupazzo gonfiabile di una concessionaria di auto, e dall’altra parte gli invitati, alcuni commossi, altri che ingurgitano senza ritegno tutte le tartine burro e alici su cui riescono a mettere le mani (ogni riferimento alla sottoscritta all’ultimo matrimonio cui ha partecipato è puramente casuale). Lo stesso bridge ha il gusto di un voto nuziale (e quel “borrowed” e quel “blue” fanno pensare alla tradizione per cui la sposa dovrebbe indossare una cosa prestata e una cosa blu, oltre a una vecchia, una nuova e una regalata).
È interessante leggere questa canzone in contrasto con Cornelia Street: se quella, infatti, è pervasa dal dubbio che le cose non durino, questa è permeata di un sano e solido ottimismo, e soprattuto di certezza (“I’ve loved you three summers now, honey, but I want 'em all”).
Il verso più interessante, a parer mio, è “And at every table, I'll save you a seat”: Taylor sta affermando che sa che il suo “lover” si presenterà a ogni occasione, cioè non dovrà mai aspettarlo invano. Sono finiti i tempi in cui vi era chi non riusciva nemmeno ad avvertire di non poter partecipare a una festa di compleanno.
#AlcoholicCount: 0
#FavLyrics: “Ladies and gentlemen, will you please stand? / With every guitar string scar on my hand / I take this magnetic force of a man to be my / Lover / My heart's been borrowed and yours has been blue / All's well that ends well to end up with you / Swear to be over-dramatic and true to my / Lover”
The Man
[Taylor Swift, Joel Little]
Nessun preambolo, nessuna preliminare divagazione, la canzone inizia secca in medias res e ci racconta come sarebbe la vita di Taylor (e di qualsiasi altra donna) se avesse una stanghetta in meno sul secondo cromosoma X: se, cioè, fosse nata uomo.
Il brano gratta appena la superficie del problema, ma nei suoi tre minuti e dieci offre una interessante panoramica esemplificativa dei due pesi e delle due misure cui la società costringe le donne a sottostare, per cui, a parità di comportamento, quello dell’uomo è ammirevole, quello della donna riprovevole. Oppure, a parità di risultati, quelli dell’uomo sono incontestati, quella della donna sminuiti (se non proprio messi in discussione).
Ciò che rende interessante ed efficace il brano è il modo stesso in cui è costruito, cioè da un solo punto di vista, quello ipotetico maschile. Per ogni situazione presentata, e il modo in cui questa viene percepita dagli altri, non si illustra anche quella femminile, che invece è lasciata aleggiare nel sottotesto: sta all’ascoltatore rendersi conto di quale sia la realtà. Così facendo, si favorisce la riflessione (o almeno si spera). Quando, per esempio, dice che se fosse un uomo sarebbe “Come Leo [Di Caprio] a Saint Tropez” (in riferimento alla ben nota tendenza di questi a frequentare per brevi periodi solo ragazze appena ventenni), cioè un gran figo, un playboy, non dice anche che, al contrario, nella stessa posizione una donna sarebbe vista solo come una puttana: non lo dice perché è implicito. È, appunto, auspicabilmente l’ascoltatore che, di fronte al verso “I'd be just like Leo in Saint Tropez” si domanderà: “Ochèi, a parti invertite la cosa come sarebbe vista?”. Perché se è Taylor a doverglielo dire, da una parte gli entrerebbe e dall’altra gli uscirebbe o, peggio ancora, verrebbe percepita soltanto come patetico vittimismo. Se invece (sempre auspicabilmente) ci arrivasse da solo, allora, forse c’è speranza.
Questa canzone è, senza dubbio, tra le mie preferite di tutto Lover, e in particolare mi ha colpito il bridge, e la dicotomia che si crea nei versi “And it's all good if you're bad / And it's okay if you're mad” e “They'd paint me out to be bad / So it's okay that I'm mad”, dove quel “mad”, l’essere arrabbiati, è l’uno conseguenza dell’altro, laddove però solo il primo è giustificato, perché sentimento appartenente all’uomo. Mi ha fatto, tra le altre cose, venire in mente ciò che disse Cat Grant a Kara Danvers dopo un inusitato scatto d’ira di quest’ultima (in cui, peraltro, chiedeva soltanto di essere trattata con rispetto) nell’episodio 1x06 di Supergirl: “Non puoi arrabbiarti al lavoro, soprattutto se sei una ragazza. Quando lavoravo al Daily Planet, Perry White ha preso una sedia e l’ha gettata fuori dalla finestra perché qualcuno non aveva rispettato una scadenza e no, non aveva aperto la finestra prima. Se io avessi tirato una sedia o, mio Dio, se avessi tirato un fazzoletto, sarebbe stato su tutti i giornali. Sarebbe stato un suicidio professionale e culturale.”
Interessante anche quel “When everyone believes you / What's that like?”, e la mente non può tornare al processo per molestie sessuali intentato dal suo molestatore (sic!), il quale non solo ha palpato quel che non doveva, ma ha anche cercato di instillare il dubbio che Taylor non dicesse la verità (e in effetti in molti hanno subito dubitato della sua parola - ordinaria amministrazione per qualsiasi donna). Per approfondire, qui il resoconto della vicenda giudiziaria.
#AlcoholicCount: 1 (drinkin’)
#FavLyrics: “I'm so sick of running as fast as I can / Wondering if I'd get there quicker if I was a man”
The Archer
[Taylor Swift, Jack Antonoff]
La famigerata traccia numero cinque. Un pezzone che va a fare compagnia a Cold As You, White Horse, Dear John, All Too Well, All You Had To Do Was Stay e Delicate.
La voce, siccome riverberata, sembra provenire da lontano, e con essa la riflessione, l’esame di coscienza: Taylor sa di aver ferito (“I’ve been the archer”) ma anche di essere stata ferita (“I’ve been the prey”).
È una canzone che parla di sé e parla a sé (come già faceva Never Grow Up), e sembra fare un po’ il punto di ciò che è stato e di quello che dovrà essere (il futuro è dato da quel “Help me hold on to you”, nel senso che Taylor è da lì che intende ripartire).
La parte più bella è senza dubbio il bridge, che peraltro attinge testualmente alla filastrocca che vede protagonista l’uovo antropomorfizzato Humpty Dumpty. Detta omelette-wannabe, infatti, “sul muro sedeva” e “dal muro cadeva, e non bastarono a metterlo in piè tutti gli uomini e i cavalli del re” (“Humpty Dumpty sat on a wall / Humpty Dumpty had a great fall / All the king’s horses and all the king’s men / Couldn’t put Humpty together again”).
La canzone è altresì colorata da figure idiomatiche quali “I cut off / my nose just to spite my face” (che indica un comportamento che, posto in essere per ira o vendetta, finisce col danneggiare soprattutto l’autore stesso), similitudini (“I pace like a ghost”), metafore (“archer” e “prey”), ed è connotata tanto da una triste rassegnazione agli aspetti negativi della vita (“The room is on fire / Invisible smoke / And all of my heroes / Die all alone”, “Screaming, Who could ever leave me darling... But who could stay?”, “'Cause all of my enemies / started out friends”) quanto da una voglia di riscatto personale (“I’m ready for combat”) perché è lei stessa si definisce la parte oscura (“dark side”) di qualcun altro che reputa migliore.
#AlcoholicCount: 0
#FavLyrics: “All the king's horses / All the king's men / Couldn't put me together again / ‘Cause all of my enemies / Started out friends / Help me hold on to you”
I Think He Knows
[Taylor Swift, Jack Antonoff]
Non sono mai stata una fan del falsetto e non cambierò certo idea ora, ma questa canzone mi piace così tanto che posso anche chiudere un occhio (fortunatamente, poi, la cosa riguarda solo i ritornelli). Ciò non toglie che la parte migliore sia il bridge perché: 1) è un bridge di marca Taylor; 2)d lì canta normale. Bello lo schioccare di dita che tiene il tempo e esprime proprio quel senso di sicurezza, quell’attitudine cool che promana dalla persona di cui ci sta parlando. E il modo in cui dice “I’ll drive” mi manda in brodo di giuggiole.
#AlcoholicCount: 0 (e per fortuna, visto che ha deciso di guidare)
#FavLyrics: “Lyrical smile, indigo eyes, hand on my thigh / We can follow the sparks, I'll drive”
Miss Americana & The Heartbreak Prince
[Taylor Swift, Joel Little]
Se in testa alla Lover-classifica c’è, per me, Death By A Thousand Cuts, bisogna pure ammettere che Miss Americana & The Heartbreak Prince la tallona a stretto, strettissimo giro. Cavolo, potrei persino arrivare a piazzarle ex aequo sul gradino più alto del podio.
Tutta la canzone è una grande e riuscita metafora politica, che sfrutta gli elementi tipici del mondo del liceo per raccontare una realtà ben più vasta e attuale. La stessa Taylor, nelle secret session, ha confermato l’origine politica dell’ispirazione. Assodato questo, è allora piuttosto facile interpretare il brano per mezzo di tale specifica chiave di lettura.
La canzone illustra una progressiva e inevitabile disillusione nei confronti del mondo che ci circonda. Certo, Taylor si riferisce agli Stati Uniti, ma racconta per forza di cose di un disagio globale.
Così, all’inizio - stante anche la fisiologica immaturità data dalla giovane età - tutto sembra idilliaco. Non so se scomodare il Candido di Voltaire e la solita pippa sul migliore dei mondi possibili, ma ci siamo capiti (“You know I adore you, I'm crazier for you / Than I was at 16, lost in a film scene / Waving homecoming queens, marching band playing / I’m lost in the lights”). Ben presto, però, ci si accorge della realtà per quella che è (“American glory faded before me / Now I'm feeling hopeless, ripped up my prom dress / Running through rose thorns, I saw the scoreboard / And ran for my life”).
La seconda strofa mi ha fatto pensare fin da subito alla contrapposizione tra Democratici e Repubblicani (il blu, peraltro, è il colore che contraddistingue i primi), e allora non è un’ipotesi peregrina credere che quel “She’s a bad, bad girl” possa riferirsi nientemeno che alla candidata presidenziale Hillary Clinton. Quello stesso blob arancione di Donald Trump l’aveva definita, in effetti, una “nasty woman”.
La strofa successiva è ulteriormente esplicativa: alla luce dei rigurgiti fascisti e in generale di estrema destra (“I see the high fives between the bad guys”) in ogni dove, il team di Taylor - come anche quello di tutte le persone sedute dalla parte giusta della storia - “is losing, battered and bruising”. E a questo punto la situazione è più tetra che mai (“American stories burning before me / I’m feeling helpless, the damsels are depressed / Boys will be boys then, where are the wise men? / Darling, I'm scared”).
Se non altro, la canzone è permeata anche da sentimenti positivi, in quanto Taylor si dice convinta che prima o poi vinceranno (“And I'll never let you (Go) 'cause I know this is a (Fight) / That someday we're gonna (Win)”). D’altronde anche nel vaso di Pandora, fuorisciti tutti i mali, si era mantenuta sul fondo la speranza.
Credo che questa sia una delle canzoni più riuscite di Taylor, non solo di questo album ma della sua carriera intera: è senza dubbio commendevole come sia stata in grado di parlare di una situazione molto specifica senza tuttavia mai farvi riferimenti espliciti, ma soltanto attraverso figure retoriche. Non che ve ne fosse bisogno, ma Miss Americana & The Heartbreak Prince è l’ennesima prova di quale cantautrice talentuosa sia.
Cambiando radicalmente discorso, la base di Miss Americana & The Heartbreak Prince ricorda tantissimo quella di So It Goes… tant’è vero che nei primissimi ascolti, mentre ancora tutto era un brodo primordiale e facevo fatica a distinguere gli elementi di specificità, dopo “It's been a long time coming, but” mi veniva quasi automatico completare con “And all our pieces fall / Right into place”.
#AlcoholicCount: 0 (eppure in questo caso avrebbe avuto tutti i motivi de ‘mbriacasse)
#FavLyrics: “American stories burning before me / I’m feeling helpless, the damsels are depressed”
Paper Rings
[Taylor Swift, Jack Antonoff]
Questa canzone è speculare a Stay Stay Stay. In effetti, si può dire che a essersi invertite siano i ruoli. Se in Stay Stay Stay era l’altra persona a farsi carico, oltre che delle cose positive (“My hopes and dreams”) anche di quelle negative (“My fears” e le arrabbiature), qui è Taylor a dire di volere contribuire a portare il fardello (“I want your complications too / I want your dreary Mondays”) perché, evidentemente, ora è psicologicamente in grado di farlo. Non solo, ma anche i due pre-ritornelli, identici se non per la variazione dei pronomi (“I” e “You”) denotano equilibrio e parità nel rapporto, segno di maturità.
Questa canzone mi fa pensare agli anni ’60 (epoca che ho sempre associato a idee positive e possibilità), e il fatto che sia così up-tempo me la rende davvero irresistibile.
#AlcoholicCount: 1 (wine)
#FavLyrics: “I like shiny things, but I'd marry you with paper rings”
Cornelia Street
[Taylor Swift]
La canzone è delimitata, all’inizio e alla fine, da due versi uguali: “«I rent a place on Cornelia Street», I said casually in the car”, e tutto quello che c’è in mezzo non è che un film mentale. Taylor immagina la vita in Cornelia Street, e ragiona sulla paura che ha di perdere la persona con cui, nella casa situata in quella medesima via, vorrebbe trascorrere la vita. In quattro minuti viene sviscerata tutta la storia, dagli inizi ancora tutti da scoprire e da comprendere (“We were a fresh page on the desk / Filling in the blanks as we go / As if the street lights pointed in an arrow head / Leading us home”), passando per gli inevitabili problemi (“I packed my bags, left Cornelia Street / Before you even knew I was gone”) fino ad arrivare, da ultimo, alla positiva risoluzione (“But then you called, showed your hand / I turned around before I hit the tunnel / Sat on the roof, you and I / You hold my hand on the street / Walk me back to that apartment”).
Alla fine, però, la canzone ritorna al punto di partenza (“«I rent a place on Cornelia Street», I said casually in the car”), ed è come se Taylor si riscuotesse da quella fantasia: nulla di tutto quello che ha cantato è accaduto, ma potrebbe. Ma forte di quel lieto fine, butta lì di aver affittato un posto...
Piccola nota curiosa: l’autoplagio. I versi del bridge “Barefoot in the kitchen / Sacred new beginnings” suonano esattamente identici al ritornello di Invisibile, brano del suo primo disco (“I just wanna show you / she don’t even know you”).
#AlcoholicCount: 3 (drink, drinks, bar)
#FavLyrics: “We were a fresh page on the desk / Filling in the blanks as we go / As if the street lights pointed in an arrow head / Leading us home”
Death By A Thousand Cuts
[Taylor Swift, Jack Antonoff]
Questa canzone è ciò che, in reputation, è stata per me Getaway Car, ciò che in 1989 è stata Wonderland, ciò che in Red è stata Holy Ground, ciò che in Speak Now è stata Long Live, ciò che in Fearless è stata Love Story, e ciò che, infine, in Taylor Swift è stata I’m Only Me When I’m With You. Trattasi, in poche parole, di quelle canzoni che vorrei trasmesse in filodiffusione sulla mia tomba, roba che già da ora sto mettendo da parte i soldi per pagare la SIAE, così almeno il mio esecutore testamentario non avrà di che preoccuparsi.
Quello che mi piace di questo brano è come sia così pieno di un’emozione tanto intensa - emozione che sembra fuoriuscire proprio da quei mille tagli - ma non essere in alcun modo ispirato alla vita privata di Taylor (per quanto, ovviamente, nessuna canzone di un’autrice così coinvolta come Taylor potrà mai essere intrepretata asetticamente: un minimo di lei e delle sue esperienze c’è e ci sarà sempre). In questo caso, infatti, l’ispirazione è dichiaratamente il film Netflix Someone Great scritto e diretto da Jennifer Katyn Robinson. Film che, va detto, non ho alcuna intenzione di guardare perché le commedie romantiche non sono tanto il mio genere, e soprattutto perché non ho nessunissima voglia di associare questa canzone a film diversi che non siano quelli che mi faccio io in testa.
#AlcoholicCount: 4 (drunk x3, wine) (e il fatto che abbia iniziato a parlare ai semafori non depone certo a favore della sobrietà)
#FavLyrics: “Paper cut stains from my paper-thin plans / My time, my wine, my spirit, my trust / Tryna find a part of me you didn't take up / Gave you so much, but it wasn't enough / But I'll be alright, it's just a thousand cuts”
London Boy
[Taylor Swift, Jack Antonoff, Cautious Clay, Mark Anthony Spears]
Questa è la canzone che mi piace di meno. È leggera e senza pretese, una versione più sofisticata di Gorgeous, ma mentre quella alla fine è simpatica e divertente, questa non è niente di più de ‘na Lonely Planet di Londra, e in effetti salvo (ma appena appena) solo il ritornello.
Ad ogni modo, fortuna che si è innamorata di un ragazzo di Londra, perché la città, con i suoi numerosi punti di interesse e la sua vivacità culturale, si presta ad essere “visitata” virtualmente. Chissà che pezzo avremmo ottenuto se si fosse innamorata di un ragazzo di Pantiere di Castelbellino.
#AlcoholicCount: 3 (Tennessee whiskey, pub, drinking)
#FavLyrics: “But something happened, I heard him laughing / I saw the dimples first and then I heard the accent / They say home is where the heart is / But that's not where mine lives”
Soon You’ll Get Better (feat. Dixie Chicks)
[Taylor Swift, Jack Antonoff]
Questa canzone, come già Ronan, è una di quelle che ti devastano l’anima. Pertanto questa canzone, come già Ronan, la skipperò a ogni piè sospinto.
È la seconda volta che Taylor affronta un tema orrendo come il cancro, ma se Ronan celebrava e piangeva un bambino che non aveva mai conosciuto, Soon You’ll Get Better la riguarda personalmente, trattandosi di sua madre Andrea.
Sono i dettagli che colpiscono, dettagli concreti, palpabili: non si parla, qui, della luce ultravioletta del mattino, o di fumo invisibile, ma di capelli che si intrecciano ai bottoni del cappotto, i barattoli arancioni dei medicinali (che Taylor definisce “holy”, “sacri”, perché potrebbero contenere la chiave della salvezza), lo studio del medico: è come se la cruda realtà si fosse rivelata tutta insieme, come una doccia fredda, e si notano cose cui mai si sarebbe pensato di dover prestare attenzione.
Quando, nell’introduzione, parlavo delle sfaccettature spaventose dell’amore, è a questa canzone che mi riferivo. Qui, infatti, emerge tutta la paura di Taylor di perdere la persona che ama di più al mondo (“Desperate people find faith, so now I pray to Jesus too”), ma anche tutta l’intenzione che ha di sostenerla in questo percorso: vuole illuminarle il cielo, e anche se è consapevole di non essere in grado di farlo, ci proverà lo stesso (“I’ll paint the kitchen neon, I'll brighten up the sky / I know I'll never get it, there's not a day that I won't try”) (questo pezzo mi devasta solo a scriverlo).
E allora adesso ciò che il promemoria di Never Grow Up (“Remember that she’s getting older too”) lasciava implicito, cioè che la madre non ci sarebbe stata per sempre, si carica di un significato ben più severo, un ulteriore non detto che pesa come un macigno: “Non ci sarà per sempre, e potrebbe esserci per ancora meno tempo”.
E se in Never Grow Up si faceva riferimento a quell’egoismo di un’adolescente che non vede, giustamente, l’ora di vivere la vita alle sue condizioni (“And you can't wait to move out someday and call your own shots”), qua emerge l’egoismo tipico e comprensibile di chi, di fronte a un lutto - vero o solo potenziale - mette al centro se stesso: paradossalmente, infatti, la morte non è mai questione di chi se ne va, ma di chi resta, che deve imparare a vivere facendo a meno di qualcosa su cui ha sempre potuto contare (“And I hate to make this all about me / But who am I supposed to talk to? / What am I supposed to do / If there's no you?”). Questi versi credo siano tra i più belli di Taylor, perché di un’onestà disarmante e dolorosissima.
#AlcoholicCount: 0
#FavLyrics: “I’ll paint the kitchen neon, I'll brighten up the sky / I know I'll never get it, there's not a day that I won't try”
False God
[Taylor Swift, Jack Antonoff]
Per prima cosa, buon per Taylor ad avere così tanta stima di sé da paragonarsi a New York City. Io sò dieci anni che me sento come la zona industriale di Baranzate.
Per seconda cosa, questa canzone detiene senz’altro lo scettro e la corona e il mantello d’ermellino di canzone più suggestiva di tutto il disco. L’atmosfera, data dal sassofono, è scura e fumosa, quasi da locale seminterrato in cui si suona il jazz. Mi sembra proprio di vedere gli avventori, la band, i camerieri che si destreggiano tra i tavoli con i vassoi. L’unica altra canzone che mi abbia mai fatto così vividamente pensare a una simile scenografia è Piano Man di Billy Joel, che però è già in partenza ambientata in un bar. Quindi plauso a Taylor per aver saputo evocare immagini in me tanto realistiche senza elementi che le richiamino direttamente. Ora che ci penso anche So It Goes... aveva sortito un effetto analogo, quindi complimenti due volte.
Ora, la canzone si snoda fondamentalmente sul contrasto tra sacro e profano, laddove però, a ben guardare, il sacro ha ben poco di sacro (è una religione che adora un falso Dio), e il profano è davvero profano (finanche peccaminoso: “But we might just get away with it / Religion's in your lips”, “We might just get away with it / The altar is my hips”) e l’una e l’altra cosa costituiscono, alla fin fine, causa ed effetto reciproche.
#AlcoholicCount: 1 (wine)
#FavLyrics: “But we might just get away with it / Religion's in your lips / Even if it's a false god / We'd still worship / We might just get away with it / The altar is my hips / Even if it's a false god / We'd still worship this love”
You Need To Calm Down
[Taylor Swift, Joel Little]
Per quanto riguarda questa canzone, resto ferma sulle mie convinzioni iniziali (di cui potete leggere diffusamente qui). C’è sicuramente da lodare il testo impegnato, che ben si colloca nell’economia globale dell’album e rappresenta adeguatamente la presa di consapevolezza politica di Taylor, e sopratutto la strutturazione in tre grandi blocchi tematici (gli hater, la discriminazione della comunità LGBTQ, l’artificiosa competizione tra donne) ma resta, comunque, irrimediabilmente scarna a livello musicale.
#AlcoholicCount: 1 (Patrón)
#FavLyrics: “And I ain't tryna mess with your self-expression / But I've learned the lesson / That stressing and obsessing / ‘Bout somebody else is no fun. / And snakes and stones never broke my bones”
Afterglow
[Taylor Swift, Louis Belle, Adam Feeney]
Una delle canzoni più interessanti è senz’altro Afterglow. Potrebbe, tematicamente, fare il paio con il verso di The Archer dove Taylor sottolinea la sua tendenza autodistruttiva a rovinare qualcosa di buono e a danneggiare se stessa nel medesimo processo (“I cut off / my nose just to spite my face” ). Qui, in effetti, lo dice peraltro esplicitamente, senza farsi scudo della retorica: “I blew things out of proportion”, “Thought I had reason to attack”, “Why'd I have to break what I love so much?”, “I'm to blame”, “Hey, it's all me, in my head / I’m the one who burned us down”. Ci vuole coraggio ad ammettere di essere in torto e a fare un passo indietro, assumersi le proprie colpe, ed è quello che sta facendo qui Taylor.
#AlcoholicCount: 0
#FavLyrics: “It's so excruciating to see you low / Just wanna lift you up and not let you go”
ME! (feat. Brendon Urie)
[Taylor Swift, Brendon Urie, Joel Little]
Il brano che è nientemeno il primo singolo estratto da Lover è anche quello che, a questo punto, sembra il più fuori posto. Liricamente è la canzone più debole di tutte (insieme a London Boy), ciò non toglie che mi era piaciuta all’epoca e continua a piacermi ora (avendo contezza, certo, che rispetto ad altri pezzi il confronto è impietoso).
Non mi dilungherò troppo, e per un’analisi più approfondita vi invito a leggere qui. In questa sede mi limito a dire che la canzone mi piace perché, fondamentalmente, è un’esaltazione della singolarità e delle imperfezioni di ognuno, cose che in fin dei conti ci rendono quel che siamo.
Rispetto alla versione singolo, quella dell’album ha perso il verso “Hey kids, spelling is fun”. Tanto quanto non capivo perché vi fosse stato inserito in primo luogo, tanto non ho capito perché abbia deciso di toglierlo. Sì, c’è chi si è lamentato perché lo trovava stupido, ma non è che stiamo parlando di una canzone papabile per il Nobel per la letteratura, quindi boh, statevi un po’ scialli. Tra l’altro il buco, per chi è abituato alla versione originale, si nota parecchio.
#AlcoholicCount: 0
#FavLyrics: “Living in winter, I am your summer”
It’s Nice To Have A Friend
[Taylor Swift, Louis Bell, Adam Feeney]
Sarò sincera: io questa canzone non l’ho capita.
Per prima cosa, strana è strana. È anche molto breve, durando appena due minuti e trenta. In realtà non è tanto il fatto che sia breve a essere strano (I Forgot That You Existed ne dura 2:51, Cruel Summer 2:58, I Think He Knows 2:53, You Need To Calm Down 2:51) quanto piuttosto che mi pare che manchi qualcosa. Come se uno andasse al cinema a vedere un film di Star Wars e poi uscisse dalla sala dopo aver letto le scritte in giallo (non che, in effetti, la terza trilogia dia motivi validi di restare fino alla fine della pellicola). La sensazione che mi provoca è di essere rimasta in qualche modo “appesa”. “Sì, e quindi? Finito qua?” ho pensato. Il Manzoni si sarebbe domandato dove fosse “il sugo della storia”.
Volendo lavorare un po’ di fantasia, in effetti, una storia c’è. O forse sono semplicemente io che mi sono costretta a trovarla, perché tanto di qualcosa avrei dovuto scrivere. Innanzitutto, la canzone è molto basilare nella sua struttura: si alternano semplicemente tre strofe e tre ritornelli, senza nemmeno un bridge. Le strofe, ad ogni modo, hanno uno sviluppo narrativo evidente, seppure piuttosto fumoso. A me sembra (ma qualsiasi cosa dica è da prendere cum grano salis, perché ripeto, questa canzone non l’ho capita) la nascita di un’amicizia che poi si trasforma in amore, e quell’amore viene infine sigillato nel matrimonio. Così abbiamo:
Strofa 1: “”Wanna hang out?" Yes, sounds like fun” ;
Strofa 2: “Something gave you the nerve / To touch my hand”;
Strofa 3: “Church bells ring, carry me home / Rice on the ground looks like snow”.
E non deve, allora, suonare fuorviante quel “friend” del titolo e dei ritornelli, perché l’amore passa anche dall’amicizia (e non necessariamente il primo assorbe la seconda). In effetti, già in You Are In Love Taylor non esclude le due cose, e le fa coesistere contemporaneamente: “Pauses, then says "You're my best friend, "And you knew what it was / He is in love”. Peraltro, anche in Paper Rings si passa dall’essere amici all’essere, evidentemente, qualcosa di più.
Ciò che, ad ogni modo, mi fa impazzire (in senso sia positivo - perché mi piace un sacco - che negativo - perché non ho idea per quale motivo sia lì) di questa canzone è la tromba, che conferisce al brano un’atmosfera davvero indecifrabile.
#AlcoholicCount: 0
#FavLyrics: “Light pink sky up on the roof / Sun sinks down, no curfew”
Daylight
[Taylor Swift]
Fatta eccezione per l’album omonimo, tutti i dischi di Taylor si chiudono su una nota positiva (Change, Long Live, Begin Again, Clean, New Year’s Day). Evidentemente, anche questo non è da meno. È in qualche modo confortante rendersi conto che Taylor ora si trovi in un momento della vita in cui non vede che la luce del giorno (per quanto non tutti i cieli siano sempre luminosi, come quelli che sovrastano quanto raccontato in Soon You’ll Get Better).
Ora, il bello delle canzoni di Taylor è come, sebbene nella maggior parte dei casi ancorate a situazioni personali specifiche, e in linea di massima riflettenti le sue esperienze e le sue considerazioni sull’amore romantico, possano in ogni caso attagliarsi anche a persone che, poniamo, hanno intenzione di vivere la propria esistenza da zitella con un gatto di nome Secondo Conflitto Mondiale. Perché se è vero ed evidente che Daylight parli dell’amore, e quella sensazione di ottimismo che vi si accompagna una volta trovato, è pure vero che vi si possa intuire anche un significato più universale. Per quanto mi riguarda, versi come “I've been sleeping so long in a 20-year dark night / And now I see daylight, I only see daylight” mi fanno credere e sperare che a un certo punto le cose andranno a posto. Nel mio caso specifico, la mia notte oscura e piena di terrore dura da dieci anni e non da venti (pietra miliare di quando è andato tutto a scatafascio è stata l’iscrizione a giurisprudenza), ma per il resto mi ci ritrovo.
In definitiva questa canzone mi fa pensare a quel fumetto in cui c’è una persona con un cubo di Rubik al posto della testa, tutto mescolato, e la didascalia che accompagna le vignette spiega che se ancora non hai capito quale sia il senso e lo scopo di tutto, non significa che non ci riuscirai e un giorno - e qui il tipo ha il cubo in perfetto ordine - potresti addirittura guardare indietro e chiederti perché mai ti eri preoccupato tanto. Tutto però sta arrivarci, a quel giorno, e non sbroccare prima (tutti gli allibratori dei peggiori bar di Baranzate danno per assolutamente certa la seconda circostanza, comunque).
Ma basta parlare di me e dei miei patemi esistenziali. Per quanto invece concerne, nello specifico, l’amore romantico, è interessante vedere quel riferimento esplicito a Red (“I once believed love would be burning red”) e di come la prospettiva di Taylor sulla questione sia cambiata in positivo, tanto che adesso quel medesimo sentimento non è più rosso, ma oro.
#AlcoholicCount: 0
#FavLyrics: “I’ve been sleeping so long in a 20-year dark night / And now I see daylight, I only see daylight”
STEP INTO THE DAYLIGHT AND LET GO
Un paio di considerazioni tecniche, prima di quelle emotive. Mi ha stupito parecchio la presenza di ben quattro canzoni che non arrivano nemmeno a tre minuti, che per me è un po’ un requisito di durata minimo. La cosa, certo, è compensata dal fatto che nel disco siano presenti ben diciotto brani, un’enormità, ma un minimissimo sforzo in più forse si poteva anche fare. Non è una cosa poi così fondamentale, dopotutto è la qualità che conta, ma il fatto che quei pezzi entrino tre-quattro volte in alcune delle mie canzoni preferite in assoluto nei secoli dei secoli amen (Nightfall On The Grey Mountains [Rhapsody] 7:20, Destruction Preventer [Sonata Arctica] 7:39, White Pearl, Black Oceans… [Sonata Arctica] 8:47, The Scarecrow [Avantasia] 11:15) mi lascia un po’ così. Non serve nemmeno andare a pescare in un genere lontano come il metal, quando la stessa Taylor, ai tempi, non si faceva certo scrupoli a dilungarsi (Dear John 6:46, Last Kiss 6:09, Enchanted 5:53, Long Live 5:18).
Ma vabbè, è una riflessione che lascia un po’ il tempo (capito? Il “tempo”... *tap tap* è acceso questo coso?) che trova. Per il resto, ho apprezzato moltissimo come Taylor sia stata in grado di rinnovarsi anche questa volta, e soprattuto come abbia saputo, di nuovo, sperimentare: ci sono alcuni punti, infatti, estremamente suggestivi (quali la tromba di It’s Nice To Have a Friend, il sax di False God, quell’intermezzo strumentale che inizia al minuto 2:54 di Miss Americana) che è certo inusuale trovare in brani pop.
Per quanto riguarda le considerazioni emotive, non ho poi molto da dire se non che un album upbeat come questo non poteva capitarmi in un periodo peggiore (e quindi, in senso lato, migliore), dove in termini di futuro e di soddisfazione personale - fatta eccezione per il romanzo per il quale ho firmato un contratto di edizione - non riesco a vedere più in là del mio naso (e non c’entra il fatto che sia più miope di Hans Uomo Talpa).
Quindi niente: siccome quest’esistenza stinfia al momento non sembra che un lunghissimo lunedì, posso almeno dire che c’è la musica di Taylor a renderla meno dreary e più shiny.
L’esperienza cinematografica in generale, e i film horror in particolare, sono quanto di più vicino a quella “catarsi” che gli antichi greci ricercavano nelle rappresentazioni teatrali: l’idea sottesa alle tragedie messe in scena sul palco era di far vivere allo spettatore passioni forti, di modo che potesse distaccarsene e purificarsi, così tornava a casa bello tranzollo e rilassato e non gli veniva voglia di fare le guerre del Peloponneso.
In questo, siamo uguali a loro: andiamo al cinema o a teatro per ridere, piangere, addirittura per spaventarci, per, insomma, sperimentare e rielaborare in modo sicuro e controllato i sentimenti che governano la nostra vita.
Tuttavia mi riesce difficile credere che gli Έλληνες di mila anni fa fossero delle teste di cactus quanto l’odierno e nostrano quivis de populo, ovvero il saltuario spettatore (in genere regazzini che dovrebbero stare in miniera e non nel convenzionale consorzio umano) che va in sala una volta l’anno con l’unico scopo
di rompere il cazzo.
Conscia che questo tipo di spettatore è attratto dai film horror come una falena dalla fiamma, dopo l’esperienza traumatica di IT ho preso la buona abitudine di varcare la soglia del cinema recitando un paio di Padre Nostro, perché non si sa mai. Ieri sera, andando a vedere Annabelle 3, ho recitato anche un paio di Ave Maria, tanto per star sicura.
«Annabelle è un richiamo per gli altri spiriti» dice Lorraine all’inizio del film.
“Non solo per gli spiriti, Lorè, non solo per gli spiriti” penso io.
In effetti avevo fiutato l’andazzo già in fila in cassa, quando mi sono trovata davanti un gruppo di regazzini che non prometteva nulla di buono, tant’è che alla cassiera ho chiesto quali biglietti avessero preso, immaginando e temendo la risposta.
«Annabelle» mi ha confermato lei, e lesta nel cogliere il grido d’aiuto che lampeggiava nei miei occhi, mi ha proposto di mettermi in ultima fila, il più lontano possibile da loro. È stata in effetti una mossa lungimirante, col senno di poi.
Se non fosse che il posto che la cassiera ha scelto per me con molta cura era, poffare, già occupato da una tipa.
«Ehm, avrei il 6» dico io.
«Vabbè, è uguale» dice lei.
«Tanto non c’è un’anima» dice lui.
“Giuro che vi sgozzo nel sonno” penso io.
Siccome non avevo voglia di litigare, mi sono seduta nel posto M8, nella speranza che il legittimo proprietario non si facesse vivo.
La legittima proprietaria si è fatta viva esattamente due minuti e mezzo dopo. Mentre le illustravo la situazione di crasso e sesquipedale abusivismo di cui mio malgrado ero connivente, l’abusiva borbottava (pure!), ma la ragazza e il suo accompagnatore si sono rivelati comprensivi, e a loro volta hanno usurpato posti che non erano i loro. L’equilibrio cosmico però è stato ristabilito poco dopo, quando i legittimi titolari dei posti 9 e 10 hanno - giustamente - preteso di sedere nelle poltrone loro assegnate, costringendo gli abusivi originali a prendersela nel posto in cui l’estrazione di corpi estranei richiede il ricorso a un proctologo.
Peraltro, gli sarebbe opportuna anche una visita da un qualsiasi specialista che tratti della percezione della realtà, perché la sala era così povera di anime (*insert sarcasm here*) che sembrava de sta in fila al patronato per il reddito di cittadinanza.
Lieta, comunque, di non aver dovuto sgozzare nessuno mi apprestavo allora a godermi il film (rivelatosi poi un bel film). Tempo un minuto, tuttavia, e da un punto imprecisato sulla sinistra, all’incirca all’altezza della comitiva molesta, si alza un urlo atroce, bestiale, finanche disumano, forse la parte più spaventosa di tutto l’universo espanso di The Conjuring, qualcosa che avrebbe fatto vacillare gli stessi coniugi Warren:
«TE LA DEVI FA FINITA DE ROMPE IL CAZZO! SE NON TE LA FINISCI TE DO UN CALCIO LÀ L’CULO! PARLI SOTTOVOCE SE PROPRIO NON PUOI FARNE A MENO ALTRIMENTI TI LEVI DAL CAZZO!»
Ça va sans dire che per la successiva ora e quaranta non si udirono più parole che dici umane. Il destinatario dello strale probabilmente è morto di vergogna, e il resto della sala aveva troppa paura di subire la stessa sorte.
In una scena del film, Ed dice a Lorraine che lei è la sua eroina.
Ebbene, ignoto vendicatore il cui favellare francese farebbe di certo impallidire Captain America, se vogliamo proprio buttarla sugli eroi, tu sei il mio.
Se Taylor Swift fosse nata a Tor Pagnotta questa canzone si sarebbe intitolata “Nun ce devi cacarcazzo”. Invece - aiutatemi a dire “purtroppo” - è nata a Reading, Pennsylvania, e quindi questa canzone si intitola “You Need To Calm Down”.
Secondo singolo estratto dal suo settimo album, Lover, dopo Me! (di cui potete leggere qui-ih-ih), è un pezzo leggero, perfetto per il periodo estivo. A parer mio, però, funziona solo dopo una bella manciata (o anche più d’una) di ascolti. Confesso che di primo acchito non mi aveva colpito e, se l’ha fatto, è stato più che altro in negativo. Poi, dai e dai e dai (e ridai), ha iniziato a piacermi.
Tuttavia, devo dire, non mi ha convinta del tutto.
You Need To Calm Down, rispetto a Me! (per forza di cose immediato termine di paragone), a fronte di un testo più impegnato cede però terreno a livello di melodia: laddove la seconda è subito orecchiabile, questa resta invece tristemente anonima, fatta eccezione un po’ per gli ultimi tre versi del ritornello (“You need to just stop / like, can you just not / step on my gown? You need to calm down”).
Ma non è l’unico motivo per cui la ritengo soccombente. Me!, infatti, arrivava all’improvviso dopo un lungo silenzio radio, pioggerellina fresca dopo la siccità. Fondamentalmente, in tutto il post reputation, Taylor aveva accuratamente evitato di apparire sotto i riflettori, snobbando eventi piccoli e grandi, blasonati e meno, dalla sagra delle salsicce col paracadute di Monte San Vito ai Grammy. Immagino che uno dei motivi per cui ho apprezzato Me! fin da subito (oltre all’essere oggettivamente più orecchiabile), sia stato il fatto che la gattara ‘mbriacona mi mancava. Avevo così tanto bisogno di nuova musica che mi sarebbe andato bene perfino un singolo in cui avesse cantato le istruzioni di un forno a microonde. Poscia, più che l’orecchiabilità poté l’astinenza. E allora ben venga una canzone leggera, allegra, disimpegnata, scanzonata (ma non certo priva di significato), quand’anche avesse come unico scopo quello di farci sapere che era, in effetti, ancora viva, quale appunto è Me!
Una volta confermata la sua esistenza terrena (e, con essa, quella di TS7), però, avrei preferito un secondo singolo musicalmente più sostanzioso o più audace. Il tutto, ovviamente, nei limiti di quanto ammettono e concedono le consuetudini estive. Il fatto è che di recente ho riscoperto il metal, e i gruppi che ascolto io sono solidi sia a livello di testi che di musica, pertanto inizio a nutrire un po’ di insofferenza per il pop elevato al pop con contorno di pop e spolverato al pop.
You Need To Calm Down mi ricorda, come tema di fondo, Shake It Off, ma anche rispetto a questa canzone non riesce a imporsi: si avverte un grano di maggiore specificità, in quanto strizza l’occhio alle problematiche della comunità LGBTQ+, contro la generalità dell’altra, ma a livello di incisività Shake It Off è, e resterà, ineguagliata. In effetti, dubito che You Need To Calm Down sarà in grado di vivere di vita propria al di fuori del contesto dell’album, nel senso di diventare un tormentone a tutti gli effetti.
Inoltre, il proliferare della legione di idioti su internet dimostra che, per quanto uno ci provi, non si riuscirà mai a metterli a tacere. A ogni “Nun me devi cacarcazzo” corrisponderà sempre un “E allora il piddì? E allora le foibe? E allora i marò? E allora Daenerys?” uguale e contrario. Forse scrollarsi di dosso la negatività è meno soddisfacente, nel lungo termine, che impedire che la stessa venga creata e diffusa, ma di certo è molto più facile da realizzare. “You need to calm down” è senza dubbio una catchphrase efficace, ma è altrettanto vero che quella di Taylor è solo una vox clamantis in deserto.
Altro problema, e non di poco conto, è il bridge. Questo perché, da che mondo è mondo, when you think Taylor Swift pensi a due cose, principalmente: ai gatti e ai bridge. Lei che ci ha regalato transizioni tra le più belle di sempre - penso a quelle di All Too Well, di Dear John, di Last Kiss, di Treacherous, di Getaway Car - non può venirsene fuori con questa... roba. Ma cos’è? Anzi, in nome di tutto ciò che è sacro, perché? Di cosa era strafatta mentre lo scriveva, di tequila Patrón come una Meredith Grey qualsiasi? L’unico “ponte” più moscio di quello di questa canzone è quello sullo Stretto di Messina
e soltanto perché
non esiste.
Questo si salva giusto per il concetto che trasmette, che è anche il terzo blocco tematico del brano complessivamente considerato.
Le prime tre strofe e il primo ritornello, infatti, riguardano gli hater che attaccano Taylor nello specifico (“You are somebody that I don't know / But you're taking shots at me like it's Patrón”; “And snakes and stones never broke my bones”; “Like, can you just not step on my gown?”), le successive tre riguardano i suoi amici LGBTQ+ (“But you're coming at my friends like a missile”; “Why are you mad / when you could be GLAAD?”; “Sunshine on the street at the parade / But you would rather be in the dark ages”; “'Cause shade never made anybody less gay”) e il bridge, appunto, tratta invece di questa malsana tendenza a voler mettere le donne in competizione le une contro le altre (“Comparing all the girls who are killing it”) quando in realtà ognuna di noi ha valore nella propria unicità, e il successo di una non esclude il successo di un’altra (“We all got crowns”).
Ora, nonostante le (per me) evidenti criticità, la canzone ha avuto comunque il pregio di lasciarmi curiosa del resto dell’album, soprattutto perché voglio vedere (rectius: ascoltare) fin dove ha deciso di spingersi con questa sua nuova e benvenuta consapevolezza politica, specie in un album tanto pop.
Punto di forza del brano, infatti, è senza dubbio la decisione di Taylor di farsi paladina di una comunità vilipesa e discriminata, invitandola a non farsi cacareilcazzo da una manica di trogloditi il cui unico scopo nella vita è quello di restarsene seduti dal lato sbagliato della storia.
Di conseguenza il video (in cui dentro ha ficcato l’equivalente dell’intera popolazione di San Marino, castelli compresi, da Serravalle a Faetano) è, per dirla con uno degli sceneggiatori di Occhi Del Cuore, una “strana, colorata, luccicante frociaggine, smaliziata e allegra come ‘na cazzo di lambada”.
Inoltre, segna la fine della guerra tra Taylor e Katy Perry (ed evidentemente anche di quella ai grassi saturi).
Ora, lo sceneggiatore di cui sopra terminava il suo monologo sulla “locura” con questa chiosa: “Se l’acchiappi, hai vinto”.
È ancora presto per dire se Taylor l’abbia acchiappata o no, dopotutto ci sono altre sedici canzoni da scoprire (che, mi auguro a livello di musica siano migliori di questa), ma di sicuro è sulla buona strada.
Ochèi, magari deficienti, nel senso che deficitiamo, no.
E nemmeno imbecilli, nel senso che imbelliamo.
Direi più ignoranti, toh, nel senso che sono tredici anni che ignoriamo cosa passa per la mente di Taylor Swift, a parte i gatti, e puntualmente ogni volta che fa qualcosa di strano (e abbiamo un concetto molto ampio di strano: va dal respirare al farsi vedere in giro per strada) partiamo subito per la tangente ed elaboriamo teorie e complotti di portata tale che, in confronto, l’ipotesi che Anastasia possa essersi salvata dall’eccidio di Ekaterinburg sembra storiografia.
Ogni volta che prendono vita le teorie, che ci vedono a contare i baffi dei gatti e moltiplicare il risultato per il peso in chilogrammi della cugina di secondo grado, tolta la velocità oraria del T-Rex e aggiunto l’importo del reddito di cittadinanza, mi viene sempre da pensare ai topi del Titanic, che iniziano a correre, con le loro zampette alla Bobby Orr, perché sanno che sta per succedere qualcosa. Qualcosa di grosso.
Con la differenza sostanziale che i topi, mentre corrono con le loro zampette alla Mama Cass, conoscono la direzione giusta.
Noi, con le nostre gambette alla Peggy Fleming, beh, ecco, noi no.
Avete mancato la svolta. Ricalcolo. Girare a destra fra un piede e mezzo. Girare a sinistra, girare a destra, girare a sinistra, girare a destra, abbassare elevazione di tre metri, poi girare a sinistra.
E così ci troviamo sempre a brancolare nel buio più totale, a inventarci countdown che trovano origine nel calendario olmeco, finché Taylor stessa non prende la situazione in mano e ci dice “tiè, stolidi buoi, il 26 aprile aspettatevi qualcosa ma adè state scialli, e vi prego di tenermi fuori dalle teorie circa lo sbarco sulla Luna”.
[l’aplomb consueto del fandom quando è palese che qualcosa stia bollendo in pentola]
Ed ecco come tutto questo ci ha portato a Me!, primo singolo estratto dal fantomatico settimo album, di cui ancora ignoriamo, beh, tutto.
Si tratta di un duetto con Brandon Urie, dei Panic! at the Disco
(e non con Ed Sheeran. Ecco che se ne vanno millenni di dispute teologiche se Dio esista o no: esiste)
scelta sui generis per un lead, tuttavia ho trovato le due voci molto ben amalgamate tra loro, quindi per me è già un diesci.
Il sound è fresco e spensierato, un pop leggero ma accattivante, ben distante dalle atmosfere cupe di reputation, che non puoi evitare di farti entrare in testa.
E anche se è prematuro fare riflessioni in questo senso, sulla base di una sola canzone, mi sembra un netto tentativo di affrancarsi dai temi che sono stati di reputation, cioè di un disco che aveva il proprio motore immobile in quella che era la falsata percezione degli altri nei confronti della cantautrice (“They say I did something bad”, “They say, "She's gone too far this time"; “They told you I’m crazy”), e che ha avuto come conseguenza una reazione (“look what you made me do”) basata unicamente su quella spinta (“talk shit”).
Me!, invece, è un elogio della propria singolarità in quanto tale (“I promise that you’ll never find another like me”; “I’m the only one of me / baby that’s the fun of me”), e non una mera giustificazione del proprio essere di fronte a voci o dicerie. Insomma, così è (se vi pare).
Infatti in Me! Taylor mette sul tavolo, con estremo convincimento e molta onestà, quello che lei è. La stessa onestà che, in effetti, celebravo già in Delicate, con la differenza gigaclopica che là Taylor metteva le mani avanti, tastava il terreno, e a farla da padrona era un sentimento di insicurezza (“Is it cool that I said all that? / Is it chill that you're in my head?”).
Me!, invece, è sì un’ammissione di imperfezione (“I know that I’m a handful / I know I never think before I jump / I know that I went psycho on the phone / I never leave well enough alone”), ma un’altrettanto chiara dichiarazione che va bene così (“A rainbow with all of the colors”). Anzi, non solo va bene, ma è anche giusto. Auspicabile, direi. D’altronde, la perfezione è appannaggio solo dei gatti.
[That’s how it works, that’s how you get the girl]
E allora è inutile e anche deleterio (se non proprio troppo faticoso) cercare di apparire per forza ciò che non si è, quando bisognerebbe invece semplicemente celebrare la propria essenza, ontologicamente parlando. Perché, appunto, è proprio lì che sta il bello.
E non credo sia un caso che il video si apra con una scena dai toni smorzati, dominata da colori come il nero, il marrone, il verde scuro, cosa che rimanda a una sorta di desiderio di conformarsi a ciò che vuole la società - seri, adulti, concreti - per poi esplodere in un tripudio di toni pastello e colori saturi, dove ognuno è libero di vivere in accordo alla sua personalità e, perché no, di essere anche un po’ frivoli, di tanto in tanto. La prima scena, infatti, rappresenta conflitto e antagonismo, mentre il resto del video accordo e affiatamento.
Come, dunque, la canzone è allegra, così il video è colorato e ironico, e lascia intendere che ci aspetta un disco brioso e scanzonato.
Lo stesso serpente di reputation ha cambiato pelle, come in effetti sono soliti fare i serpenti, e si è trasformato in centinaia di farfalle (e non sono sicura che questa sia una loro cosa tipica, ma è pure vero che quando guardavo SuperQuark il documentario sugli animali lo saltavo sempre), che fin dalla notte dei tempi portano con sé un significato simbolico di rinascita, nella loro digievoluzione da brucomela a lepidottero.
E allora, forse, sarà anche vero che ormai reputation è acqua sotto i ponti, ma la lezione di quel disco viva e lotta insieme a noi.
Cioè che Taylor rises from the dead, and she does it all the time.
Quando sono andata a vedere The Lego Movie 2, qualche settimana fa, la sala si è riempita subito di un inutile manipolo di rompicoglioni - una perifrasi edulcorata per “bambini” - che hanno iniziato a correre, saltare e a esprimersi con l’eloquio di un camionista veneto bloccato in coda dentro al traforo del Frejus. Lo scenario che si dipanava davanti alle mie fosche pupille era quello che immagino accadrebbe se mai Jane Goodall decidesse di portare al cinema degli scimpanzé posseduti dal demonio.
Direte: che c’entra con Captain Marvel?
C’entra.
Perché in sala c’era anche una bambina - non facente parte della comitiva infernale - che è stata buona e zitta per tutto il tempo.
Direte ancora: sì, hocccapito, ma che c’entra con Captain Marvel?
C’entra.
Perché durante i trailer, mentre veniva proiettato proprio quello di Captain Marvel, il papà ha esclamato, più entusiasta che sorpreso: “Hai visto? È una supereroina!”.
Di fronte a quella frase non ho potuto fare a meno di sorridere, e per un po’ sono persino riuscita a dimenticare che in sala era in corso, autorizzata da alcuni genitori omertosi, l’invasione degli ultracorpi.
[illustrazione d’artista di come stavo gestendo la caciara nella mia testa]
È vero che, se prendiamo quella sala cinematografica come un insieme rappresentativo a fini statistici, scopriamo che la proporzione è ancora tutta sbilanciata in favore di quelli incapaci di inculcare qualsivoglia nozione di vivere civile nella loro immonda e molesta progenie, ma almeno so che c’è un genitore che sta crescendo la figlia in modo che sappia che non è la stanghetta in più o in meno su un cromosoma a fare di qualcuno un eroe.
O forse di genitori decenti ce ne sono anche più d’uno, perché al termine dei titoli di coda di Captain Marvel (attenzione: le scene bonus sono 2, quindi restate fino alla fine-fine-fine) un bambino ha gridato al padre: “ma questo film è bellissimo, avrebbe dovuto vederlo pure mamma!”.
Carol Danvers, la supereroina in questione, è una che prima ti mena e poi in caso ti fa le domande, ha un senso dell’umorismo irriverente, possiede feeeenomenali poteri cosmici, è in grado di cavarsela da sola praticamente sempre, e sa che non deve rendere conto a nessuno né di quello che è, né di quello che può fare. E quel che è bello è che i suoi superpoteri sono, in fin dei conti, soltanto un quid pluris. D’altronde, ancora prima che divenisse super, era già giusto un pilota collaudatore dell’aeronautica, sai, robetta...
[sbem!]
Se ci fosse stata lei in Avengers: Infinity War, Thanos avrebbe forse fatto in tempo a vaporizzare giusto metà di San Vito Chietino, non certo metà del pianeta. Allora non posso che essere felice sapendo che la bambina di Lego Movie possa diventar grande aspirando a essere forte e indipendente come Carol Danvers. Dopotutto, i maschietti già vengono incoraggiati a essere Capitan America, Iron Man, Thor, Batman, Superman, Flash, Aquaman, Spiderman, Green Arrow, Wolverine, Daredevil, e di sicuro me ne dimentico altri due o tre... cento. Dov’è scritto che solo questi ultimi siano legittimati a sognare in grande?
Però è una riflessione amara quella che segue. Perché se i maschi sognano in grande, io sognavo e sogno cose normali ma che a me parevano (e purtroppo paiono ancora) straordinarie.
Ho iniziato a guardare Distretto di Polizia che ero una pischella di dodici anni, e il pensiero che i commissari del X Tuscolano potessero essere una Giovanna Scalise e una Giulia Corsi (e non Giovanni e Giulio) mi mandava in brodo di giuggiole. Adesso, a trent’anni, mi rendo conto che le cose non sono cambiate per niente, perché quando guardo Legends Of Tomorrow, mi prendo sempre un istante per bearmi del fatto che il capitano della Waverider sia Sara Lance, e lo stesso quando mi sparo un episodio di Supergirl, dove direttrice del D.E.O. è Alexandra Danvers (no, lei e Carol non sò parenti).
[Empowering little girls. Da in alto a sinistra, in senso orario: Melissa Benoist (Supergirl), Gal Gadot (Wonder Woman), Daisy Ridley (Rey), Brie Larson (Captain Marvel)]
Ora, Captain Marvel non è l’unica supereroina in circolazione. Insieme a Wonder Woman, Supergirl, Daisy “Quake” Johnson, Scarlet Witch e Natasha Romanoff è in buona (seppur ristretta) compagnia, ma fino a prova contraria è soltanto la seconda dopo Wonder Woman (ma la prima del MCU) a essere protagonista di un film (cioè di uno degli strumenti comunicativi più efficaci e d’impatto del secolo passato e di quello in corso), a fronte, ça va sans dire, di decine e decine di pellicole prettamente al maschile.
Ho letto, su internet, di uomini mortalmente offesi dall’idea che il supereroe Marvel più potente di sempre sia una donna. O anche, semplicemente offesi dal fatto che un supereroe donna abbia un film tutto suo. Potranno esserci dieci, cento o mille omuncoli a pensarla così (e ci sono, mortacciloro se ci sono), ma finché ci sarà anche un papà a incoraggiare la figlia a essere come Carol Danvers, o ci sarà un bambino che esce dal cinema felice di aver visto una ragazza spaccar culi, allora posso dire di avere ancora fiducia nel mondo.
Per Mark Twain, almeno fino al 21 aprile 1910, le voci sulla sua morte erano oltremodo esagerate. E lo stesso può dirsi della mia amica Silvia, uscita indenne da un’influenza che - tenetevi forte - avrebbe potuto lasciar secco un gerbillo.
L’essersi trovata faccia a faccia con la Trista Mietitrice™ l’ha senza dubbio spinta a ripensare la sua esistenza terrena e a decidere di mettere in ordine i suoi affari.
Per questo la de cuius, paventando l’eventualità di essere chiamata a oltrepassare la linea di demarcazione prematuramente, mi ha incaricata di scrivere il suo elogio funebre, che sarò ben lieta di leggere dal pulpito quando trapasserà.
E vista la frequenza con cui si indispone, ciò potrebbe avvenire da un momento all’altro.
“Siamo qui riuniti, oggi, il volto pervaso da un fremito di scoramento e gli abiti listati a lutto, per celebrare la vita (breve) e le gesta (poche) di Silsba: figlia, sorella, amica, pasticcera, barista del baretto, autista di pandina, strappata troppo presto all'abbraccio e all'affetto dei suoi cari.
Cioè, "presto". È vero pure che aveva il sistema immunitario di un gerbillo allevato da una famiglia no-vax, quindi la sua dipartita alla veneranda età di 29 anni che manco un servo della gleba del Sacro Romano Impero non è che ci debba stupire più di tanto, insomma, mi sarei stupita di più a vederla arrivare a 30. Che poi, oh, 29 anni da umano son tipo 203 in anni da cane, che al netto dell'inflazione mi pare comunque una cifra ragguardevole.
Vabbè, divago.
Dicevo che se ne è andata, Silsba, troppo presto. La sua fiamma è bruciata così rapidamente ma, oh, con quale intensità! Quanta luce ha portato nell'oscurità delle nostre tribolate esistenze, quanto calore nei nostri cuori induriti dagli scorni e dalle delusioni della vita!
Ma la natura, si sa, è matrigna, e l'ha selezionata per l'estinzione, come già aveva selezionato il possente Tirannosauro.
Cioè, oddio, in effetti Silsba era di corporatura minuta, aveva un ginocchio che scricchiolava ed era incline a episodi influenzali, quindi direi che più che un Tirannosauro era, toh, un dodo. Ma che dodo possente era! Non per dire, ma nella scala che misura la possanza il dodo si colloca tra il gambero di fiume e la barbietola da zucchero, scusate se è poco.
Ora noi piangiamo quello che è stata e quello che avrebbe potuto essere, e possiamo solo immaginare il contributo che avrebbe potuto dare al mondo se solo la sua data di scadenza non fosse stata pari a quella della mozzarella, come ad esempio la gomma per cancellare gli evidenziatori (invenzione, peraltro, già brevettata da qualcun altro).
Ma non siamo qui per parlare di proprietà industriale, siamo qui per parlare di Silsba e del suo fulgore che come un lampo tutto abbaglia, no, scusate questa è la sigla di Lady Oscar, errore mio.
Mi rivolgo a te, Silsba, nella sicumerica convinzione di parlare a nome di tutti i presenti, che ti amavano come una di famiglia (cosa che vale soprattutto per la tua famiglia) e chiedo: Silsba, rimembri quel tempo della tua vita mortale quando beltà splendea negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, e tu, lieta e pensosa, le scale salivi perché avevi paura degli ascensori?
Quante avventure insieme! Quante passeggiate! Adesso però, a malincuore, dobbiamo lasciarti. È con animo malmostoso che ci prepariamo a dirti addio, ma la letizia pervade i nostri cuori sapendo che un giorno non lontano ci rincontreremo. Cioè, "non lontano", oddio, famo 'na roba come quegli ottanta-novant'anni, che per fortuna qua c'è gente con un sistema immunitario meno farlocco del tuo.
Ora, Silsba, le tue spoglie terrene giaceranno inerti e senza vita (o almeno spero, non sono ancora pronta per l'apocalisse zombie) in un oscuro loculo di provincia, ma la tua anima volerà e volerà e volerà fino a toccare il volto di Dio, che certo dirà «Oh, ma insomma, tieni un po' le mani a posto. Sicureeeezzaaaa».
Va, Silsba, va, e insegna agli angeli a cuocere le meringhe.”
La struttura fisica di PieraPi, in relazione alla sua vecchiaia, non è adatta a guardare le dirette televisive notturne in contemporanea con l’America, ma lei non lo sa e le guarda lo stesso.
In effetti, ti rendi conto di non essere più in grado di tollerare certi stravizi quando, alle cinque e zero uno di mattina, vai ad impostare la sveglia sulla calcolatrice, salvo poi accorgerti dello sbaglio e allora apri il registratore. Per dirla con Gigliola Cinquetti Remix, “non ho (più) l’età”.
Ed è esattamente per questo che la notte di lunedì 25 febbraio guarderò gli Oscar.
Il mio guilty pleasure, infatti, sono le dirette delle premiazioni. Nel corso degli anni mi sono sparata la mia bella dose di Academy of Country Music Awards, Country Music Awards, Grammy Awards, Golden Globe Awards, Academy Awards, Odisseo, Perseo, Teseo, un sacco di seo awards.
È più forte di me: mi piace l’adrenalina dovuta alla ricerca di un link streaming funzionante, l’ebbrezza della clandestinità (perché se mamma mi sgama alzata alle quattro di notte, l’unica diretta che potrei fare sarebbe quella del mio funerale), l’abbraccio confortevole della consapevolezza che tanto nessuno di quelli per cui faccio il tifo vince mai qualcosa.
(mi viene il dubbio che sia io a portar sfiga)
È da quel dì, da quel “And the Grammy goes to... Rrrèndom Access Memory, Daft Punk” che gli award show mi sono assai avari di soddisfazioni, ma io e il mio mal riposto ottimismo alla Charlie Brown li seguiamo lo stesso.
Gli ultimi Golden Globe non sono stati da meno: ladrocini in sede di nomination a parte (mi ha lasciato perplessa la mancata candidatura a miglior sceneggiatura e miglior regia per A Quiet Place e a miglior serie drammatica per The Man In The High Castle), ho dunque fatto nottata per vedere:
- l’ennesimo vilipendio a Keri Russell.
Elizabeth Jennings non ha portato sulle spalle il peso dell’Unione Sovietica per sei stagioni (e soprattutto nell’ultima, mentre quell’altro andava a ballà la quadriglia), perché le venisse mancato di rispetto in questo modo. Si trattava della sua ultima occasione per portare a casa un premio importante per The Americans, per cui lascio detto fin d’ora che sulla mia lapide vorrò scritto “GIUSTIZIA PER KERI RUSSELL”
- Amy Adams trasformarsi sempre più inesorabilmente in Leonardo DiCaprio
- Emily Blunt venire derubata, roba che Diabolik, alla Hollywood Foreign Press je spiccia casa. È vero che le attrici praticamente perfette non si lasciano confondere dalla mancanza di riconoscimenti materiali, ma siete dei peracottari lo stesso.
La terza legge della dinamica vuole, tuttavia, che ad ogni azione corrisponda una reazione uguale e contraria. Così, a fronte delle empietà di cui sopra:
- The Americans miglior serie drammatica. Finalmente un riconoscimento per il telefilm PIÙ SOTTOVALUTATO DEL DECENNIO
- Rachel Brosnahan miglior attrice in una serie commedia o musicale (The Marvelous Mrs. Maisel). Insieme al Globe di cui sopra, la sua è l’unica vittoria di cui sono convinta senza riserve
- il senso dell’umorismo di un ignoto dipendente di E! che nella didascalia, al posto di correttamente scrivere “Jameela Jamil” (cioè il nome dell’attrice inquadrata) ha optato invece per “Kamilah Al-Jamil”. Kamilah Al-Jamil è un personaggio fittizio della sit-com The Good Place, legato da un’accesa rivalità alla sorella Tahani, interpretata proprio dall’attrice in questione
- il senso dell’umorismo della stessa Jameela di fronte a Taylor Swift, che riprende una gag ricorrente della serie
- Taylor Swift. È apparsa praticamente dal nulla, zitta zitta e cacchia cacchia, tipo i gatti che ti si materializzano davanti all’improvviso appena scarti un biscotto.
Da noi erano circa le tre. L’eterea apparizione mi ha colta così tanto alla sprovvista che quando l’ho vista la prima cosa che ho pensato è stata “ma che cacchio succede, è difettoso lo streaming?”. È DIFETTOSO LO STREAMING. Good grief. Tutti gli streaming difettosi del mondo si bloccano, il mio invece vive nel 3000 e sopperisce alle difficoltà tecniche facendo comparire Taylor Swift a caso. Ecco, il fatto di aver formulato un pensiero del genere vi dà la cifra di come sto messa io alle tre di notte. Ma a mia discolpa dico che credevo si fosse aperto - non so come e non so perché - un video dei Grammy del 2009
- La scoperta di avere qualcosa in comune con Emily Blunt (amore per John Krasinski a parte): la miopia. Che lusso.
- Eeee i Krasinski. Punto.
E adesso daje con gli Oscar.
Chiedo preventivamente scusa a tutti coloro per cui farò il tifo in quell’occasione.
MARVELOUS, MYSTICAL, RATHER SOPHISTICAL (AND PRATICALLY PERFECT)
Quando venne rilasciato il primo trailer per Mary Poppins Returns, un placido primo pomeriggio di metà settembre, io mi trovavo a bordo di un autobus in direzione stazione di Ancona. Girava da un po’ la voce che sarebbe stato reso pubblico proprio quel giorno, e io avevo in effetti trascorso le precedenti otto ore (il lunedì la mia sveglia suona così presto che è puntata direttamente a “mortaccivostri”) a refreshare tutti i social esistenti chiedendomi dove diavolo fosse quel video.
All’improvviso, sbam! In un tripudio di cori angelici, di cherubini, serafini e spazzacamini, il trailer.
Ora, dovete sapere che in tutte le mila volte che ho preso quell’autobus, il controllore è passato in due sole occasioni. L’ultima di queste è stata proprio quel lunedì.
Io mi ero appena sparata i tanto agognati due minuti e ventisei secondi, e il mio equipaggiamento di personaggio base consisteva in: n. 2 occhi a cuoricino; n. 1 sorriso ebete; n. 1 saracinesca abbassata nel cervello con un cartello con su scritto “Torno subito”. Se qualcuno avesse sbirciato oltre detta saracinesca avrebbe visto i miei neuroni fare il trenino cantando e sculettando un medley composto da Brigitte Bardot, Bardot, Maracaibo e La Notte Vola.
Io non so, giuro (giuro: non lo dico per aumentare l’effetto drammatico) che non ho idea da quanto tempo il controllore stesse cercando di attirare la mia attenzione. Avete presente Paola Perego che chiama “Presidente? Presidente?” quando Andreotti.exe smise di funzionare? Ecco.
Oh, alla fine il biglietto gliel’ho fatto vedere, eh, non si vada a pensare che con artifizi e raggiri stessi cercando di frodare la Conerobus S.p.A. Gliel’ho fatto vedere, e lui l’ha squadrato, poi ha squadrato me, ha pensato “Questa qua è totalmente fulminata ma almeno il titolo di viaggio è in ordine” e cià.
Morale della favola: quando si tratta di Mary Poppins, o quando si tratta di Emily Blunt (o, a maggior ragione, quando si tratta di Mary Poppins interpretata da Emily Blunt), io perdo totalmente la capacità di intendere e di volere. E, forse, anche e soprattutto la dignità.
It’s a good thing you came along when you did, Mary Poppins
“Arrivederci, Mary Poppins. Non stare via molto” salutava Bert alla fine del primo film.
È stata via cinquantaquattro anni e centoventi giorni.
Si tratta di uno degli intervalli di tempo più lunghi mai registrati tra un film e il suo sequel: se vogliamo escludere Bambi II, che è uscito direttamente in home-video sessantatré anni e centosettantotto giorni dopo, a detenere il record è Fantasia 2000, con i suoi cinquantanove anni e quarantotto giorni.
È un ciclopico lasso temporale - tanto ampio da vedere l’emergere della contestazione giovanile, l’uomo sulla Luna, la fine della guerra del Vietnam, la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione dell’URSS, le guerre jugoslave, l’abolizione dell’apartheid, la nascita di internet, l’11 settembre, la crisi economica più grave dopo quella degli anni ’30 e Leonardo DiCaprio vincere un Oscar - ma Mary non poteva tornare che ora: ora che i tempi sono più bui che mai, ora che c’è l’unica attrice in grado di darle la vita dopo dame Julie Andrews.
Really? How incredibly rude. One never discusses a woman’s age, Micheal. Would’ve hoped I taught you better.
Non trattandosi di un remake ma di un sequel, questa Mary Poppins è la stessa Mary Poppins del 1964, ma ha caratteristiche peculiari tutte sue che di fatto la rendono una terza versione di se stessa. La pellicola, infatti, ci mostra dei lati della tata che la contraddistinguono tanto da quella del primo film tanto da quella dei libri, nel complesso creando un personaggio più sfumato e sfaccettato pur restando - e lo approfondiremo poi - sempre uguale a se stesso. E, ovviamente, praticamente perfetto.
Nei libri (*), viene descritta una Mary estremamente altera e vanitosa (“Ci teneva a mostrarsi nella sua veste migliore. In realtà, era sicura di mostrarsi sempre nella sua veste migliore”; “Sospirò di piacere quando vide tre se stesse [...] Le sembrava una vista così graziosa che avrebbe desiderato che di se stesse ce ne fossero una dozzina”; “Non guardava altro che se stessa riflessa nel vetro”; “Non aveva mai visto nessuno con una figura tanto elegante e distinta”), superba (“Poi, con un lungo poderoso sospiro, che sembrò significare che aveva formulato il suo giudizio, disse: «Accetto l’impiego.» E più tardi la signora Banks riferì al marito: «L’ha detto proprio come se ci facesse un grande onore.»; “Squadrò altezzosamente”, “Arricciò il naso con superiorità”; “Soggiunse con l’aria di compatirli”), brusca, sempre propensa a dire “no”, con una voce “fredda e chiara che suonava sempre come un ammonimento”, rigida in faccia e con “un terribile sguardo ammonitore” tanto che non la si poteva guardare e disobbedirle.
Gli unici momenti in cui la Mary del libro si mostra vagamente impacciata sono quando è con Bert (“Mary Poppins abbassò lo sguardo, strisciando la punta di una scarpa sul pavimento, due o tre volte. Poi sorrise alla scarpa in un modo che la scarpa capì benissimo che quel sorriso non era per lei”) e i rari, rarissimi sprazzi di gentilezza riservati ai bambini mandano questi ultimi nel panico più totale, facendogli temere che stia per succedere qualcosa di brutto - nello specifico, che stia per lasciarli (“«Forse sarà soltanto per gentilezza» disse Giovanna per calmarlo, ma si sentì un tuffo al cuore come Michele. Sapeva benissimo che Mary Poppins non perdeva mai il tempo a essere gentile. Eppure, strano a dirsi, durante tutto il pomeriggio Mary Poppins non aveva detto neanche una parola sgarbata”; “Alla fine Michele non poté sopportarlo più a lungo: «Oh, sii sgarbata, Mary Poppins! Sii ancora sgarbata! Non è da te! Oh, mi sento tanto in ansia!»”).
Nel film del 1964 i tratti più spigolosi del personaggio appaiono decisamente smussati, vuoi direttamente dalla sceneggiatura, vuoi dalla grazia e dall’eleganza di cui era (è) infusa Julie Andrews. Tratti che, ad ogni modo, permangono: non a caso, la primissima volta che vediamo Mary la scopriamo intenta a sistemarsi il trucco e a contemplarsi allo specchio. Ancora, è lei stessa a descriversi come “gentile ma anche severissima”, e difatti non lesina sguardi di rimprovero ed espressioni sdegnate, sbuffi di esasperazione o un fermo tono di voce all’occorrenza.
Dobbiamo aspettare fino alla fine del film per vederla “confusa dai sentimenti” (per quanto lei affermi vivamente di no), e cioè quando si appresta a lasciare i Banks consapevole che il suo compito è finito (almeno per i successivi vent’anni).
La terza Mary è tutto questo (non sarebbe Mary Poppins, altrimenti), ma dietro ai modi spicci e alle espressioni scioccate e impermalite, specie quando viene fatto riferimento all’età
o, peggio ancora, al peso,
lascia intravedere anche una buona dose di empatia. La nuova generazione di Banks, infatti, colpita da un terribile lutto, sta cercando di riprendersi da una situazione ben più tragica rispetto a quella di Jane e Michael alla stessa età (cioè quella di avere un padre che, concentrato solo sul lavoro, materialmente presente ma emotivamente distante, non si rendeva conto che presto non avrebbe avuto “bimbi da poter viziar”). Così, quando John le fa notare che nell’ultimo anno, a seguito della morte della madre, sono cresciuti tanto, l’espressione di Mary è dolce e compassionevole, ma Emily è veloce a ricacciarla dentro, e a sostituirla con la pragmaticità che è solita contraddistinguere la tata. Ancora, dopo averli messi a letto, e cantata una dolcissima ninna nanna, al di là della porta chiusa indulge in un sorriso malinconico, di assoluta partecipazione al dolore di tre bambini rimasti orfani di madre.
Non solo, ma questa Mary, per quanto - come da tradizione - sia arrivata volando e abbia compiuto le magie più incredibili, appare anche più umana: di fronte alla porta della bottega della cugina Topsy (una certa Meryl Streep), quando questa le intima di andarsene perché è il secondo mercoledì del mese e il suo mondo si rovescia come una “tartaruga sdraiata su schiena”, la tata è genuinamente colta alla sprovvista. Si è totalmente dimenticata, come una persona normale. Viene mostrata una sorta di fallibilità che è difficile anche solo immaginare di associare alla Mary del libro o a quella del 1964. Badate, si tratta di una dimenticanza, questa, che è ben diversa da quella di cui alla prima metà del film, quando Mary conduce l’allegra brigata alla Royal Doulton Music Hall salvo poi scoprire che si è “dimenticata” di farla apparire: in questo caso, infatti, quando le viene fatto notare, è palese come quella sbadataggine altro non sia se non un calcolatissimo coup de théâtre.
A quella fallibilità fa peraltro eco la stessa Topsy, quando afferma che “Una volta tanto Mary Poppins ha ragione”.
(Are you, though?)
Ciò non toglie che, per quanto più tenera o più “umana”, o caratterizzata così che emergano sfumature ulteriori rispetto alle descrizioni o interpretazioni precedenti, sempre di Mary Poppins stiamo parlando, cioè del più fulgido esempio - per dirla con Christopher Vogler (**) - di “Eroe catalizzatore”. Si tratta di “figure centrali [...] che non cambiano molto perché la loro funzione principale è provocare una trasformazione negli altri. Come i catalizzatori nella chimica, essi provocano un cambiamento nel sistema senza subire mutamenti. [...] questi Eroi subiscono pochi cambiamenti interiori e intervengono soprattutto per aiutare gli altri o guidarli nella crescita.”
Questo, ovviamente, vale soprattutto per le due Mary cinematografiche, in quanto quella cartacea ha ben poco ruolo nell’arco di trasformazione dei cinque piccoli Banks (o del Banks senior), limitandosi ad arrivare, far vivere loro le avventure più bizzarre e poi ripartire.
La Mary del 1964, invece, nel rompere gli equilibri (de)cantati da George Banks, fa comprendere a quest’ultimo che il suo ruolo di padre non (deve) consistere soltanto nell’impartire una istruzione rigida, ma anche e soprattutto nell’essere presente in senso affettivo. E quella del 2018 è tornata per ricordare ai bambini di essere bambini, e agli adulti di esserlo stati. Tema, questo, recentemente affrontato dalla Disney anche nel bel Ritorno Al Bosco dei Cento Acri.
In effetti, questa terza Mary ha anche un ruolo più attivo: è lei che mette (consapevolmente) in moto i meccanismi della trama, consegnando a Georgie lo scatolone che contiene - all’insaputa di tutti - il certificato azionario che stavano cercando, è lei che suggerisce al bambino di accomodare l’aquilone, è lei che evoca la folata di vento decisiva.
Pratically perfect, in every way
Come Irene Adler è, per Sherlock Holmes, “La Donna” cioè il paradigma di tutto il genere femminile, così Emily Blunt è, per me, L’Attrice. Ha ragione Rob Marshall, il regista, a dire che nessun’altra persona al mondo, dell’uni o del multiverso, avrebbe potuto vestire i panni di Mary Poppins oltre lei.
Per quel che mi riguarda, con questa interpretazione Emily è entrata nell’Olimpo dei grandi con la stessa prepotenza con cui Mary sfonda la porta della bottega di Topsy. Balla e canta come se lo facesse da sempre, e regala al personaggio guizzi che, vuoi per intuito, vuoi per preparazione o per talento innato, rappresentano la cifra dell’attrice che è. Per fare un esempio, in uno dei numeri musicali più riusciti, dal gusto vaudevilliano, affronta i ritornelli di A Cover Is Not A Book con la cadenza e il tono di voce di un vecchio ebbro (tant’è che, infatti, la canzone è una sorta di discorso diretto dello zio Gutenberg, “ubriaco un giorno sì e uno no”).
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La sua Mary è elegante ed eccentrica, dolce e lapidaria, straordinaria e umana, infallibile e fallibile. Mezzo secolo dopo Emily ha saputo riprendere in mano un personaggio ormai entrato nell’immaginario collettivo (e per il quale Julie Andrews ha vinto l’Oscar alla migliore attrice) e ha saputo infondervi nuova vita senza per questo venire meno agli elementi costitutivi del ruolo. Mi auguro che l’Academy ne tenga conto, o potrei non rispondere più delle mie azioni.
So when life is getting scary, be your own illuminary
La controparte di Mary non è più lo spazzacamino Bert ma il lampionaio Jack, apprendista del primo. Ad interpretarlo Lin-Manuel Miranda, che dimostra di essere a suo agio su un set cinematografico tanto quanto su un palco di Broadway. Ero a conoscenza dell’enorme successo di Hamilton, ma ignoravo che lui fosse un artista tanto talentuoso: ha guadagnato una nuova fan, senza dubbio.
Once upon a time, there was a man with a wooden leg named Smith.
È stata una fortuna che, a suo tempo, abbia appreso la notizia del cameo di Dick Van Dyke nella privacy della mia camera: fosse accaduto su un autobus il controllore mi avrebbe fatta ricoverare direttamente, tanto mi sono fatta prendere dall’entusiasmo. Qui interpreta Mr Dawes jr, in uno splendido omaggio al suo secondo ruolo nel film del 1964, dove era, oltre a Bert, anche Dawes padre.
Balloon, she wrote
Se la sala in cui ho assistito alla prima proiezione del film non ha battuto ciglio al palesarsi di Dick Van Dyke (segno che non vede più in là del proprio naso - va da sé che non si è nemmeno resa conto della presenza di Karen Dotrice, la Jane Banks originale), altra storia si è avuta quando è comparsa l’unica e sola Jessica Fletcher, accompagnata da un coro di “aaaaah, guarda chi c’è”. Angela Lansbury è una leggenda del grande e del piccolo schermo, e la sua presenza non è che un valore aggiunto in un film già bello di suo.
Simply sensational, standing-ovational
P.L. Travers si starà rivoltando nella tomba: già non era entusiasta del fatto che i suoi libri divenissero un film, e non oso immaginare cosa avrebbe pensato se avesse saputo che mezzo secolo più tardi ne avrebbero girato addirittura un sequel (per tacere, poi, di Saving Mr Banks). Magra consolazione sarebbe stata per lei il fatto che Il ritorno di Mary Poppins è, secondo me, davvero un bel film.
Non nego che abbia dei difetti: ad esempio, non mi è piaciuto l’inserimento di un antagonista (un Colin Firth senza infamia e senza lode) perché cosa riuscitissima del primo film era che non vi fosse un vero e proprio cattivo se non le circostanze. Dopotutto, la (nuova) famiglia Banks andava benissimo a rotoli da sola senza la necessità dell’intervento del banchiere a rimarcarlo.
Riconosco altresì che quello che per me è un win per altri è un sin: per dire, ho apprezzato il fatto che i plot point dei due film siano praticamente paralleli, ma quello che per me è l’effetto rassicurante e familiare dell’aristotelica struttura in tre atti per altri può essere banale e “già visto”.
Ad ogni modo, parlando onestamente e con tutto l’amore che mi lega al film del 1964, questo secondo è tutto ciò che speravo sarebbe stato il sequel.
Poiché ho trascorso due ore con gli occhi a cuoricino, ritengo che abbiano saputo mantenere in vita quel senso di magia e meraviglia che è stato la fortuna di Mary Poppins. E non era scontato: il pubblico del 2018 non è lo stesso del 1964. Gli spettatori odierni hanno ormai il palato abituato alle trovate più fantasmagoriche, e se cinquanta anni fa vedere una tata discendere dal cielo o personaggi in carne ed ossa interagire con quelli disegnati sembrava (giustamente) un incredibile incanto, oggi siamo così assuefatti agli effetti speciali che non ci meravigliamo più di niente, e siamo così bombardati da storie di tutti i tipi (e da tutti i medium) che siamo alla costante ricerca di qualcosa che, vuoi per bizzarria, audacia o innovazione (penso a Black Mirror con l’episodio interattivo), riesca ad emergere dal mucchio di un’offerta vastissima. Dice bene Claire all’inizio di Jurassic World: “Siamo sinceri: nessuno si impressiona più con un dinosauro, ormai. Vent’anni fa la de-estinzione è arrivata come una magia. Oggi i bambini guardano uno stegosauro come un elefante al giardino zoologico. [...] I nostri ricercatori scoprono nuove specie ogni anno, ma i consumatori li vogliono sempre più grandi, più rumorosi... più denti.”
Il ritorno di Mary Poppins, invece, fa proprio questo: stupisce. E non tanto (o non solo) con le meraviglie dell’animazione 2D o degli effetti speciali ma con l’intimità di una piccola storia familiare.
Now my heart is so light that I think I just might start feeding the birds and then go fly a kite
Il film è sì un sequel che si regge perfettamente sulle sue gambe, ma è anche un omaggio lungo due ore: non si può fare a meno di notare come il numero dei lampionai richiami, tanto nell’ensamble quanto nelle atmosfere notturne, quello degli spazzacamini. E anche in questa seconda occasione Mary è vestita di rosso, a riprova di quanto nulla sia stato lasciato al caso.
E la colonna sonora utilizza, in maniera nemmeno sottile, gli inconfondibili temi musicali di quella precedente, contribuendo a solleticare la nostalgia degli spettatori.
Ora, in sala, origliando i commenti, ho sentito che qualcuno si aspettava che Mary cantasse anche Supercalifragilistichespiralidoso: purtroppo non lo fa, ma se avessero prestato maggiore attenzione si sarebbero resi conto che l’adattamento italiano un piccolo easter egg ce l’ha messo: così, nel brano Royal Doulton Music Hall, il verso “At the highly acclaimable, nearly untamable / lavishing praisable, always roof-raisable” diventa “È la supercalibile fragilistibile chespiralibile edosolibile”. Una piccola cosa, ma apprezzalibile.
E sì, vero che le canzoni, per quanto sagaci ed orecchiabili, forse non sono memorabili quanto le altre, ma è altresì vero che mentirei se dicessi di essere uscita dal cinema senza canticchiare The Royal Doulton Music Hall o Trip A Little Light Fantastic.
(e comunque ciò non mi impedirà certo di ascoltare in loop, per il resto della mia esistenza terrena e anche ultraterrena, Emily Blunt cantare)
Dicevo che il film è un lungo omaggio: lo è non solo del suo diretto predecessore, ma anche della fonte originale. Per fare giusto un esempio, la sequenza vaudeville attinge a piene mani dall’universo creato da P.L. Travers: i capitoli 6 e 9 del secondo libro vivono all’interno di A Cover Is Not A Book.
E il film, già che c’è, si prende la briga di citare anche un altro classico Disney, Pomi d’ottone e manici di scopa (che ha per protagonisti la già citata Angela Lansbury e David Tomlinson, cioè George Banks, e presenta canzoni scartate da Mary Poppins, a chiusura del cerchio): la sequenza subacquea è un diretto rimando a quella dell’altro film.
Entrambe le pellicole poi, con perfetta specularità, terminano con Mary che chiosa sulla sua perfezione, mentre da lontano osserva commossa i Banks che festeggiano la ritrovata serenità al parco, solo che in un caso la nuova leggerezza è data dagli aquiloni, nell’altro dai palloncini.
Now if your life is getting foggy that's no reason to complain, there's so much in store, inside the door of 17 Cherry Tree Lane
Il 2018 è stato l’anno di Emily e delle sue vasche da bagno (ma spero che a casa abbia la doccia, se non altro per motivi ecologici) e quello che mi auguro sia “in store” nel 2019 è una vagonata di premi, a cominciare dal Golden Globe, per il quale ha già beccato la nomination, passando per il SAG e per approdare all’Oscar. Altrimenti, lo ribadisco, potrei non rispondere più delle mie azioni.
E nessun controllore della Conerobus potrà far niente per fermarmi.
Se siete arrivati fin qui bravi, ma fate un ultimo sforzo e mettete un like alla pagina Emily Blunt Italia, che si ringrazia della condivisione dell’articolo.
* P.L. Travers, Mary Poppins, prima edizione digitale 2014 da III edizione Bur ragazzi, giugno 2010. Traduzione di Letizia Bompiani (1935)
** Christopher Vogler, Il viaggio dell’Eroe, Dino Audino Editore, 2010, p. 45
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